lunedì 27 luglio 2015

Graffiti a Ferrara














Palazzo delle Palestre, angolo Via Porta Catena e Vile Francesco Tumiati.

(Le foto, se non diversamente indicato, sono di N.K.)

domenica 26 luglio 2015

Barcellona (1) - 27 aprile - 1° maggio 2009

Barcellona - zona del porto.













Ponte mobile
Ponte mobile
Ponte mobile
Arriva il veliero
Il veliero è passato


Il ponte mobile visto dall'alto del Monument a Colom

Monumento a Cristoforo Colombo
Panorama dalla piattaforma ai piedi della statua


Panorama dalla piattaforma ai piedi della statua

Nella placa del Portal de la Pau s'innalza il Monument a Colom, il monumento a Cristoforo Colombo. Eretto per l'Esposizione Universale del 1888, è costituito da una colonna di ferro alta circa 60 metri alla cui sommità è posizionta una statua del navigatore, con un braccio teso. Il gesto di Colombo non indica l'America come si potrebbe credere, ma le Baleari. Potete salire con un comodo ascensore per godere il panorama dalla piattaforma ai piedi della statua. (sconsigliato a chi soffre di claustrofobia N.K.)
Trasporti ecologici

Alla ricerca del menù


Anche il palato vuole la sua parte

Italo Scalambra - frammenti di storia



Emilio Scalambra detto Italo, fu Cesare, nacque a Gradizza di Copparo l'8 agosto del 1909; di origine bracciantile, a sei anni d’età vide partire il padre per il fronte della Grande Guerra, da cui non tornò più. Aveva due fratellini più piccoli, di quattro e due anni, e la madre lavorò fino a sfinirsi per tenere in piedi la famiglia, ben presto aiutata proprio da Italo, che con lei divise il lavoro, la fame e il freddo. Cercava di guadagnare qualcosa anche vendendo un po’ di frutta, vino e, d’inverno, i castagnacci, così la casa era frequentata da lavoratori, da braccianti e fin dall’inizio del fascismo Italo comprese quanto intollerabile fosse la perdita della libertà, pur nella miseria. La madre era iscritta al partito socialista, e la casa era luogo di incontro, discussioni politiche, distribuzione di volantini. L’inverno del 1921 Italo aveva 12 anni appena ma, grazie al suo umilissimo commercio di brustoline, arance e mandarini nei luoghi in cui la sera c’era qualche festicciola, cominciò ad ascoltare e riferire alla madre e a un compagno antifascista quel che si diceva, p.es., nella casa del fascio di Gradizza.

 Seppe così dell’imminente spedizione fascista per incendiare la sede della lega e avvisò appena in tempo perché ci fosse una reazione difensiva che face fallire l’assalto. Le azioni violente dei fascisti contro i lavoratori erano frequenti e anche la casa di Scalambra era sempre presa di mira finché, dopo una minaccia notturna in cui i fascisti arrivarono a sparare per farsi aprire e “perquisire” la casa, e anche a causa della malattia della madre, la famiglia lasciò il paese e si trasferì a Ferrara.
Abitarono in un tugurio di via Ragno, Italo lavorava in un bar di via San Romano e nel 1925, lui appena quindicenne, la madre si spense ad appena 35 anni d’età. Italo lavorò dove e come poteva, per sostenere i due fratelli più piccoli; andò anche un anno all’Ansaldo, a Genova. Orfano e capofamiglia, nell’inverno 1929 fu obbligato a tornare a Genova per il servizio di leva che gli assegnarono in Marina: 28 mesi di ferma!!. Riuscì a farsi esentare e tornare a Ferrara.
Frequentava gli ambienti antifascisti e nel 1930 ebbe i primi contatti con Giovanni Magoni, che era fruttivendolo sul Listone. Si incontravano nel bar Americano di via San Romano e fra giovani antifascisti sentivano l’esigenza di studiare, di leggere, nonostante la totale censura del regime sui libri e sui giornali . Cominciarono così a studiare il francese per leggere i giornali di quel Paese e si passavano di mano in mano i libri “proibiti” che trovarono a fatica: Gorkij, Kuprin, e Il tallone di ferro di Jack London.
Gli antifascisti più anziani erano maestri di vita per quei giovani e, fra i tanti, una figura fondamentale per tempra morale e coerenza politica fu Otello Putinati che quando uscì dal carcere nel 1933 e li incontrò fece maturare le loro scelte; Italo Scalambra e Giovanni Magoni, con altri, entrarono nel partito comunista clandestino e da subito parteciparono all’attività cospiratoria contro il fascismo, rischiando moltissimo anche a stampare e diffondere volantini, fare scritte murali (p.es. durante la guerra di Spagna), preparare e diffondere bandierine rosse per il 1° maggio e per la ricorrenza della rivoluzione russa... Putinati, infatti, fu di nuovo arrestato quasi subito e liberato solo nel 1942!!
Italo Scalambra fu arrestato nel 1938 per attività cospirativa e in quanto comunista fu condannato dal Tribunale Speciale.

 Liberato, con l’Italia in guerra, fu richiamato nell’esercito nel 1942 e anche nella caserma di Sasso Marconi faceva propaganda antifascista fra i soldati; fra i quali ormai c’erano molti scontenti del fascismo. Tornava anche a Ferrara appena poteva, dove aveva la famiglia ma i contatti politici erano sempre più difficili per l’arresto di molti compagni.
Anche Scalambra fu di nuovo arrestato, a Sasso Marconi, e portato a Bologna a San Giovanni in Monte, poi trasferito a Ferrara, dove il carcere era pieno di antifascisti di città e provincia e anche di qualche romagnolo: almeno 100 persone!
Nelle settimane successive alla caduta del fascismo, dopo il 25 luglio 1943, i prigionieri politici antifascisti vennero liberati; fra essi Italo Scalambra che tornò protagonista della lotta politica. Con Putinati, Magoni, Farolfi e Ugo Parmeggiani formarono la segreteria provvisoria della federazione comunista di Ferrara. Cominciò una vita semiclandestina: nei 45 giorni del governo Badoglio la guerra continuava, i partiti antifascisti non venivano ufficialmente riconosciuti e anzi i militanti più attivi venivano perseguitati. A fine agosto si “sentiva” ormai la minaccia tedesca e l’8 settembre arrivò lo sfacelo dell’esercito italiano e l’occupazione nazista. Scalambra e gli altri si attivarono per il recupero delle armi gettate dai soldati in fuga, e con azioni pubbliche audaci fra cui si ricorda il discorso pubblico in piazza, durante lo sciopero del 9 settembre’43, insieme all’avvocato socialista Mario Cavallari e a Ermanno Farolfi, invocando la pace, la libertà e la ribellione contro gli usurpatori della democrazia.
Dal giorno dopo erano ricercati, e quindi entrarono in clandestinità. Italo Scalambra fece sfollare la moglie e il figlio in provincia di Ravenna e da inizio ottobre ’43 fu a disposizione del partito che da Bologna lo mandò prima in montagna, a Vidiciatico, zona in cui si stava organizzando una delle prime formazioni partigiane, la “Carlo Pisacane” in cui il suo nome di battaglia fu “Ruggero”, poi egli fu inviato fra Guiglia e Zocca per formare un gruppo partigiano e stabilire rapporti con la popolazione. Da Bologna il comando regionale del Cln coordinava le attività; era fine dicembre ’43: tempi duri, freddo cane, poche armi, ma azioni audaci e rischiose fino al memorabile sciopero del 1° marzo 1944, con azioni militari che paralizzarono la città, i tram, i treni, le fabbriche. L’8 marzo il comando della 7a Gap diede a Scalambra l’ordine di trasferirsi a Modena per occuparsi dell’organizzazione militare di quel distaccamento Gap che divenne la 65a brigata “Walter Tabacchi” (dal nome dell’eroico caduto in azione). Da allora il nome di battaglia di Scalambra fu “Gino”, e divenne poi comandante della leggendaria II Divisione “Pianura” artefice della liberazione di Modena il 22 aprile 1945.

Nei rapporti con esponenti di altre forze politiche antifasciste – necessari essendo tutti nel CLN Alta Italia – usava invece il nome di “Sesto” come rappresentante del partito comunista, e non quello di Gino, comandante provinciale dei gappisti prima e di tutta la II Divisione “Modena Pianura”poi, che univa tutte le forze antifasciste.
Quei 14 mesi di lotta a Modena e nel vasto comparto di pianura furono ricchi di episodi e azioni straordinari; il movimento si sviluppò enormemente grazie all’antifascismo diffuso e radicato nella popolazione di città e di campagna che offriva uomini e risorse, nonostante i rischi e la presenza feroce di fascisti e nazisti in un terreno che non offriva nascondigli, vie di fuga protette, ma era tutto percorribile e controllabile dal nemico... Ma Scalambra aveva doti straordinarie di comandante, sapeva trascinare gli uomini con l’esempio e la parola, aveva capacità che gli permettevano di sfidare il numero preponderante dei nemici e dei loro mezzi.
Oltre alle Gap – da 3 a 5 componenti ognuna - si formarono le Sap – di 15-20 elementi per ogni squadra – che sabotavano le attività di retrolinea del nemico, contrastavano le razzìe nelle campagne e la produzione bellica nelle fabbriche, smontavano e nascondevano i macchinari industriali per impedirne la spedizione in Germania. Diffondevano la stampa clandestina: “Audacia”, periodico di Gap e Sap delle formazioni di pianura, “L’Unità” , e manifestini e volantini.
Ben presto si fusero sotto unico comando, e Gino coordinava girando con documenti falsi, sempre disarmato, a Modena e nei vari centri. Dice William Ginosi, allora comandante della Gap n.1: “ Noi per Gino ci saremmo fatti ammazzare. Difficilmente si vuole tanto bene a un comandante, perché era di una umanità e comprensione eccezionali, di un coraggio senza limiti”.

Ci furono, per esempio, gli attacchi alle caserme di Concordia, Gonzaga, San Possidonio, la liberazione dimostrativa di Soliera, le battaglie di Prati di Cortile, di Novi, di Rovereto di Carpi... azioni che impegnavano gruppi di 150-200 uomini. Gli effettivi della “Modena Pianura” arrivarono a contare più di 6.000 uomini!
Il 22 aprile 1945, con azione coordinata e ben preparata di tutte le brigate di Modena Pianura, Modena fu liberata e occupata dai partigiani mentre anche una colonna blindata alleata avanzava verso la città. La battaglia per la liberazione durò dall’alba al tardo pomeriggio.
Alle 21, un gruppo di ufficiali americani e inglesi arrivò al comando di divisione partigiana che si era insediato all’Accademia Militare – prima roccaforte del comando nazifascista – ed espressero elogi per i risultati che i partigiani avevano conseguito.
Dopo la Liberazione fu riconosciuto anche ufficialmente il valore di Italo Scalambra: venne decorato con la Medaglia d’Argento al Valor Militare.
Liberata Modena e tornato subito a Ferrara, dopo il 25 aprile del 1945 fu incaricato dal C.L.N. del ripristino della legalità presso la Questura della città, incarico assai delicato, e ne divenne dirigente dell’ufficio politico fino all’estate del ’46.
Fu poi Segretario della Federazione Comunista provinciale di Ferrara dal 1946 al 1959.
Più volte, nel corso degli anni, fu Consigliere e Assessore del Comune di Ferrara.

Negli anni del ritiro dalla vita pubblica, sempre però partecipe con passione alle vicende politiche e sociali, Italo Scalambra mantenne l’impegno attivo nell’ANPI e fino alla morte è stato parte dei suoi organismi dirigenti.
Nel 1983, per i giovani e per la storia italiana, raccolse le sue memorie nel libro “La scelta da fare” (Ed. Riuniti) in cui raccontava la sua straordinaria vicenda umana e politica.

Morì il 4 dicembre 1994 e appunto dieci anni dopo gli fu dedicata una via, dove ora i ferraresi si recano spesso, perché è nell’area dove si trovano molti uffici pubblici.
Via Italo Scalambra si trova nel quadrante di espansione ovest della città, fuori dalle mura storiche, situato fra viale Po, via Modena, via San Giacomo e via Trenti-Bonzagni.
La via Scalambra chiude il cerchio quasi perfetto che forma insieme a via Mons. Maverna e via Foglisi, cui si accede in modi diversi da via del Lavoro, da via Marconi oppure dalla stazione ferroviaria usando il “nuovo” sottopassaggio pedonale sotto i binari.

Era doveroso che la città rendesse omaggio alla memoria di Italo Scalambra dedicandogli una via, poiché anche lui, come altri, dedicò gran parte della sua vita al servizio della collettività combattendo per la libertà durante il fascismo e nella Resistenza, e in seguito per l’affermazione e il consolidamento della democrazia.
La via gli fu intitolata il 4 dicembre 2004, esattamente dieci anni dopo la morte, avvenuta il 4 dicembre 1994; lo vogliamo ricordare anche noi, nel ventesimo anniversario.

Bibliografia:
- La pianura dei ribelli –Fatti e documenti della lotta partigiana. Carpi – Soliera – Novi e Campogalliano. Ed. 1980 dal Centro Stampa del Comune di Carpi
- La scelta da fare di Italo Scalambra Ed. Riuniti, 1983

Il testo suindicato è stato tratto dal sito:




















Scalambra Emilio detto Italo detto Gino

8 agosto 1909 - [?]













Informazioni







Titolo di studio: Licenza elementare






Occupazione: Barista
Emilio detto Italo Scalambra, «Gino», da Cesare ed Albina Casazza; nato l’8 agosto 1909 a Copparo (FE). Ne 1943 residente a Ferrara. Licenza elementare. Barista. Il 10 ottobre 1943 per disposizione del PCI si trasferì a Bologna da Ferrara dove era molto conosciuto per la propria attività antifascista. A Bologna prese contatti con Dalife Mazza che l'incaricò di unirsi al dist di montagna Carlo Pisacane operante nell'Appennino bolognese. Costretto in seguito ad abbandonare la base, scoperta dai carabinieri, ne costituì una seconda nella zona di Monte Ombraro (Zocca -MO). Qui, in uno scontro a fuoco con i fascisti rimase ferito. Rientrato a Bologna, si unì alla 7ª brigata GAP Gianni Garibaldi, in via di formazione. Partecipò all'organizzazione degli scioperi operai dall'1 marzo 1944. L'8 marzo 1944 raggiunse Modena dove ebbe la responsabilità di dirigente militare in sostituzione di Osvaldo Poppi, rimasto ferito durante una missione. Successivamente gli fu affidato il comando della 65a brigata Walter Tabacchi ed in seguito quello della div Modena Pianura. Restò nel Modenese fino alla liberazione della città. Riconosciuto partigiano, con il grado di capitano, dal 15 ottobre 1943 al 30 aprile 1945. Testimonianza in RB3. [O]
- See more at: http://www.storiaememoriadibologna.it/scalambra-emilio-detto-italo-508970-persona#sthash.AyroSgLI.dpuf
Italo Scalambra è tumulato nella Certosa di Ferrara.


Dal libro

LA SCIA DI SANGUE LASCIATA DAI "TUPIN" (1943/1945)
di Rolando Balugani
Edizioni Sigem
pag. 132/133:

Secondo processo alla banda dei Tupin:
....... Di particolare interesse fu la deposizione di Italo Scalambra, segretario provinciale del P.C.I., ed ex commissario di Polizia, il quale illustrò la violenta attività svolta dal Carlo Tortonesi, che egli arrestò nelle vicinanze di Perugia subito dopo la liberazione.
........





















Scalambra Emilio detto Italo detto Gino

8 agosto 1909 - [?]













Informazioni







Titolo di studio: Licenza elementare






Occupazione: Barista
Emilio detto Italo Scalambra, «Gino», da Cesare ed Albina Casazza; nato l’8 agosto 1909 a Copparo (FE). Ne 1943 residente a Ferrara. Licenza elementare. Barista. Il 10 ottobre 1943 per disposizione del PCI si trasferì a Bologna da Ferrara dove era molto conosciuto per la propria attività antifascista. A Bologna prese contatti con Dalife Mazza che l'incaricò di unirsi al dist di montagna Carlo Pisacane operante nell'Appennino bolognese. Costretto in seguito ad abbandonare la base, scoperta dai carabinieri, ne costituì una seconda nella zona di Monte Ombraro (Zocca -MO). Qui, in uno scontro a fuoco con i fascisti rimase ferito. Rientrato a Bologna, si unì alla 7ª brigata GAP Gianni Garibaldi, in via di formazione. Partecipò all'organizzazione degli scioperi operai dall'1 marzo 1944. L'8 marzo 1944 raggiunse Modena dove ebbe la responsabilità di dirigente militare in sostituzione di Osvaldo Poppi, rimasto ferito durante una missione. Successivamente gli fu affidato il comando della 65a brigata Walter Tabacchi ed in seguito quello della div Modena Pianura. Restò nel Modenese fino alla liberazione della città. Riconosciuto partigiano, con il grado di capitano, dal 15 ottobre 1943 al 30 aprile 1945. Testimonianza in RB3. [O]
- See more at: http://www.storiaememoriadibologna.it/scalambra-emilio-detto-italo-508970-persona#sthash.AyroSgLI.dpuf

martedì 7 luglio 2015

Renata Viganò - frammnenti di storia








Renata Viganò era nata a Bologna, in pieno centro, in via Broccaindosso, il 17-6-1900, figlia unica di estrazione borghese ma da radici combattive: sua bisnonna Caterina, insieme al figlio sedicenne, aveva seguito Garibaldi nelle valli di Comacchio in marcia verso Venezia nel 1849.

Molto miope e non bella, Renata crebbe con un forte istinto di autonomia e ribelle agli schemi di vita borghesi; già da adolescente scrisse e pubblicò due libri di versi: Ginestre in fiore, nel 1913, e Piccola Fiamma nel 1916. Intanto il patrimonio famigliare era andato disperso e il cambiamento di condizione fu radicale: Renata dovette interrompere gli studi alla terza liceo rinunciando al progetto di laurearsi in medicina (progetto comunque molto “all’avanguardia” per una donna a quel tempo) e, diventata infermiera, dal 1922 lavorò al Brefotrofio di Bologna in via D’Azeglio, mentre si prendeva cura dei genitori – entrambi ammalati – che morirono poi tra il 1926 e il 1928. 

Renata restò al lavoro fino all’autunno del 1943, a contatto quotidiano con la sofferenza, la miseria dei bambini abbandonati e malati; lei stessa vivendo duri anni di sacrifici e di solitudine, riuscì solo nel 1928, morti i genitori, a comprare casa dove vivere, in via Mascarella 63/2 (diventerà un luogo importante per la Bologna intellettuale e resistente). Negli anni di giovinezza e maturità per lei così difficili e solitari scrisse un altro libro, Il lume spento, 1933, oggi ormai introvabile. Fra le compagne di lavoro di estrazione proletaria, Renata conobbe aspetti di realtà che ignorava; una di esse in particolare, Bianca Fontana di cui divenne amica, aveva fidanzato e fratello in carcere perché comunisti e, tramite lei, Renata conobbe antifascisti come Aurelio Fontana, Mario Peloni (in seguito segretario del PCdI di Ferrara)e Maria Baroncini. La colpì molto il gesto nobile e coraggioso del prof. Bartolo Nigrisoli che si dimise dall’Ospedale di Bologna per non iscriversi al Partito Fascista. Lei stessa allora, insieme a Bianca Fontana, non ritirò la tessera fascista. 

Era ormai pronta per gli incontri e le vicende del destino; il 5 dicembre 1935 un comune amico - Donino Roncarà - chiese a Renata di ospitare a casa sua, almeno quella prima notte dopo la liberazione dal carcere, un giovane scrittore autodidatta, antifascista e comunista, senza famiglia: Antonio Meluschi, il futuro comandante della brigata partigiana “Mario Babini”. Da allora, restarono insieme per quarant’anni, fino alla morte, condividendo tutto: esperienze, scrittura e letteratura, lotta partigiana, ristrettezze economiche, il bello e il brutto del dopoguerra.
La loro casa - si sposarono il 6 settembre 1937 - divenne punto di riferimento per gli antifascisti, che vi si ritrovavano di nascosto dalla vigilanza poliziesca. Quello stesso anno Renata volle accogliere in famiglia un neonato del brefotrofio, dove lei continuava a lavorare; lo adottarono e lo amarono come figlio proprio: Agostino. Mentre Renata lavorava, Meluschi scriveva e pubblicava con discreto successo. La casa di Renata dal ’39 era frequentata da giovani intellettuali, divenne luogo di discussioni che aprivano le coscienze; lì si affinavano sensibilità e cultura di uomini come Roberto Roversi, Francesco Leonetti, PierPaolo Pasolini, Luciano Serra, Enzo Biagi (allora redattore del Carlino) Federico Zardi, Giorgio Bassani, i fratelli Arcangeli, qualche volta anche Galvano Della Volpe e Achille Ardigò.

Con la guerra, quei preziosi ma precari spazi di vita finirono: la casa perquisita e razziata, poi lesionata dai bombardamenti, nel luglio del ’43 Renata, Antonio e Agostino dovettero andarsene, e il 26 luglio - dopo la caduta e l’arresto di Mussolini - Renata aveva già organizzato la Commissione interna con gli operai dell’ospedale. Non era la pace, ma l’inizio della Resistenza. Il coprifuoco dalle 20 alle 6 del mattino rendeva tutto più difficile, Renata a Bologna forniva abiti civili ai soldati in fuga e insieme al bimbo subì il tremendo bombardamento del 25 settembre, mentre Meluschi era già in clandestinità altrove. Da ottobre anche Renata col bimbo iniziò una vita pericolosa, ufficialmente da sfollata col bambino e in realtà preparando una rivista clandestina “La Comune” il cui primo numero uscì il 15 gennaio 1944 e che durò fino a novembre. Da Viserbella a Imola a Campotto a Filo d’Argenta, Renata e Antonio passarono fra i partigiani della Resistenza armata, e coprivano le loro attività insegnando e dando ripetizioni ai ragazzi di Mulino di Filo. Renata prima fu staffetta, poi divenne responsabile sanitario di brigata, fra mille difficoltà e totale penuria di mezzi; il Comando della brigata Babini le diede poi la direzione del comparto e a marzo ’45 Renata costituì una rete di presidi ben diffusa nel territorio, oltre a tre ospedaletti clandestini, che riusciva a dare anche all’ospedale di Alfonsine viveri e medicinali per l’assistenza di civili e famiglie in fuga dalla prima linea del fronte.

Quando finalmente arrivò la Liberazione, dopo una fase di passaggio di consegne e di attività a disposizione del CLN, Renata e i suoi tornarono a Bologna a inizio 1946, dove la loro casa riprese ad essere ritrovo di giovani intellettuali come Tobino e D’Agata, e ambedue ripresero a scrivere mentre Agostino cresceva. Renata collaborava anche all’Unità (per es.fu inviata a Mosca nel marzo 1950 per le elezioni del Soviet Supremo), a Rinascita e a Noi Donne (per questo periodico fino al 1955.)
Renata trasferì la testimonianza e le esperienze a contatto con tanti umili eroi della Resistenza nel libro di una vita: L’Agnese va a morire, che vinse il Premio Viareggio nel 1949 e fu tradotto in ben 14 lingue e Paesi in pochi anni. Renata scrisse e pubblicò ancora negli anni ’50 Storie di ragazze che trattò con molto anticipo il tema dell’aborto. Scrisse ancora, più tardi, Matrimonio in Brigata che fu pubblicato postumo.
Nel 1975 mentre L’Agnese va a morire veniva trasposto al cinema da Giuliano Montaldo e la stessa Renata Viganò collaborava alla sceneggiatura, la salute la stava abbandonando e non riuscì a vedere il film ultimato; morì infatti il 24 aprile 1976 assistita amorevolmente dal figlio Agostino e la moglie, che ospitarono nella loro casa di Casalecchio di Reno Renata e Antonio nei loro ultimi anni.

Ferrara ha dedicato una via a Renata Viganò:
Via Renata Viganò è nella zona sud-est di espansione della città, fra via Giuseppe Fabbri all’incrocio con via Eva e Adamo e la via Grazia Deledda (fra il Po Morto di Primaro e la ferrovia Ferrara-Ravenna).
Poco lontano in linea d’aria c’è via Antonio Meluschi, suo compagno di vita e di lotte.




Notizie tratte dal sito:
http://associazioni.comune.fe.it/2790/via-renata-vigan


 Dal sito dell'ANPI:

Nata a Bologna il 17 giugno 1900, deceduta a Bologna il 23 aprile 1976, infermiera e scrittrice.
Aveva la passione della medicina e sognava di fare il medico, ma per le difficoltà economiche che la sua famiglia aveva incontrato, aveva dovuto interrompere il liceo. Fu così che Renata, prese un "posto nella classe operaia", facendo prima l'inserviente e poi l'infermiera negli ospedali bolognesi. Ma questo suo lavoro al servizio di chi aveva bisogno, non le impediva di scrivere, l'altra sua passione, che già si era manifestata quando, a 13 anni, era riuscita a pubblicare "Ginestra in fiore", una raccolta di poesie. Sino all'8 settembre del 1943 la Viganò aveva continuato lavorare in ospedale e a scrivere, per quotidiani e periodici, elzeviri, poesie, racconti. Con l'armistizio, un'altra svolta esistenziale: con il marito, Antonio Meluschi, e il figlio, l'infermiera-scrittrice partecipa alla lotta partigiana ("la cosa più importante nelle azioni della mia vita", com'ebbe a dire), nelle valli di Comacchio e in Romagna, facendo, sino alla Liberazione, di volta in volta l'infermiera, la staffetta garibaldina, la collaboratrice della stampa clandestina. Di questa esperienza è pervasa la produzione letteraria di Renata Viganò. La sua opera più famosa, L'Agnese va a morire, edita nel 1949 da Einaudi e vincitrice del Premio Viareggio, è stata tradotta in quattordici lingue. Ne è stato tratto un film da Giuliano Montaldo ed è stata ristampata nel 1993 sempre da Einaudi. Ma vale la pena di ricordare, tra la copiosa opera della scrittrice, almeno altri due libri sul tema della Guerra di liberazione: Donne della Resistenza, ventotto affettuosi ritratti di antifasciste bolognesi cadute (Mursia, 1955) e Matrimonio in brigata, una raccolta di significativi racconti partigiani (Vangelista, 1976), uscito proprio l'anno in cui la scrittrice è scomparsa. Due mesi prima della morte, a Renata Viganò è stato assegnato il premio giornalistico "Bolognese del mese", per il suo stretto rapporto con la realtà popolare della città.