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sabato 6 luglio 2024

TINA ANSELMI

 

Tina Anselmi
Tina Anselmi nel 1983

Ministro del lavoro e della previdenza sociale
Durata mandato29 luglio 1976 –
11 marzo 1978
Capo del governoGiulio Andreotti
PredecessoreMario Toros
SuccessoreVincenzo Scotti

Ministro della sanità
Durata mandato11 marzo 1978 –
4 agosto 1979
Capo del governoGiulio Andreotti
PredecessoreLuciano Dal Falco
SuccessoreRenato Altissimo

Deputato della Repubblica Italiana
Durata mandato5 giugno 1968 –
22 aprile 1992
LegislaturaV, VI, VII, VIII, IX, X
Gruppo
parlamentare
Democrazia Cristiana
CircoscrizioneVenezia-Treviso
Incarichi parlamentari
  • Presidente della Commissione d'inchiesta sulla Loggia P2;
  • Membro della Commissione Lavoro e previdenza sociale;
  • Membro della Commissione Igiene e sanità;
  • Membro della Commissione Affari sociali.
Sito istituzionale

Dati generali
Partito politicoDemocrazia Cristiana (1944-1992)
Titolo di studioLaurea in lettere
ProfessioneInsegnante; Sindacalista
FirmaFirma di Tina Anselmi
 
Tina Anselmi è stata una politica e partigiana italiana. È stata la prima donna ad aver ricoperto la carica di ministro della Repubblica Italiana.
Nascita: 25 marzo 1927, Castelfranco Veneto
Morte: 1 novembre 2016, Castelfranco Veneto
Cariche precedenti: Ministro della salute della Repubblica Italiana (1978–1979)
Partito: Democrazia Cristiana
Istruzione: Università Cattolica del Sacro Cuore
Genitori: Ferruccio Anselmi, Norma Ongarato
 
Per approfondire:
 
 
                                                                                                       

lunedì 6 maggio 2024

SOSTIENI IL 25 APRILE – CASA CERVI RESISTE

 

SOSTIENI IL 25 APRILE – CASA CERVI RESISTE 

Come sapete Casa Cervi ha subito il furto dell’incasso della festa del 25 Aprile. Per fronteggiare questa grave perdita Casa Cervi ha lanciato una campagna di sostegno aprendo un canale diretto per ricevere gli aiuti.

Casa Cervi ha messo a disposizione l’IBAN del proprio conto corrente bancario che è il seguente:
IT 26 X 08340 66500 000000055 298
Il conto è intestato a Istituto Alcide Cervi e la causale da mettere per chi effettua il versamento è: Casa Cervi Resiste

 

1943 – Dicembre 28 – Eccidio sette fratelli Cervi

 Le notizie che seguono sono state tratte da:

https://www.anpireggioemilia.it/agenda-della-resistenza/1944-29-dicembre-eccidio-7-fratelli-cervi/

1943 – Dicembre 28 – Eccidio sette fratelli Cervi 

I Cervi erano arrivati al podere di Praticello di Gattatico alla ricerca di un terreno pieno di gobbe e di buche da livellare per renderlo coltivabile, attraverso le conoscenze acquisite grazie alla “Riforma sociale” di Luigi Einaudi ed alle tante ore trascorse sui libri, nelle pause del lavoro, per imparare le moderne tecniche dell’agricoltura. Avevano le mucche, allevavano piccioni  e le api che producevano un finissimo miele. Avevano comperato il primo trattore della zona ed inoltre avevano piantato per la prima volta in Emilia, l’uva americana. Tutto questo suscitò molte gelosie nel paese, ma soprattutto l’attenzione delle autorità fasciste.

I Cervi erano sempre stati antifascisti, così come il padre Alcide e la madre Genoeffa Cocconi, donna di profonda fede cattolica; ma fu soprattutto Aldo ad infondere a tutta la famiglia le prime nozioni politiche e quindi un naturalissimo e convinto antifascismo. Con il trascorrere del tempo, divennero sempre più stretti i contatti con il movimento antifascista, così che, già dall’inizio della guerra, la loro casa divenne un rifugio per i prigionieri alleati fuggiti dai campi di prigionia. Era tra loro il russo Anatolij Tarasov, successivamente fidato compagno dei sette fratelli ed attivissimo partigiano nella Resistenza. Sfiduciato il Duce dai suoi stessi gerarchi, cadde il fascismo il 25 luglio 1943 e la famiglia Cervi organizzò una grande festa, offrendo la famosa pastasciuttata a tutta la popolazione sull’aia della casa. Nelle pentole vennero cotti dieci quintali di pasta e ai Campi rossi giunsero a mangiare i vicini, i parenti, gli amici, i paesani. La popolarità dei Cervi aveva ormai superato i confini di Gattatico e con l’arrivo dei nazisti in Emilia, la loro cantina ed il loro fienile divennero depositi per le armi dei partigiani che andavano in montagna. Anche loro, seppur per un brevissimo periodo, provarono la via dei monti, dove ebbero contatti con il parroco di Tapignola Don Pasquino Borghi, ma capirono ben presto che la Resistenza in montagna non era ancora sufficientemente organizzata. Così tornarono ai Campi rossi, poiché ritennero fosse più importante rimanere in pianura e mantenere i collegamenti con i primi nuclei partigiani che via via andavano formandosi, nascondendo le armi e diffondendo la stampa clandestina. I fascisti non tardarono però a stroncare l’intensa attività cospirativa dei Cervi, infatti all’alba del 25 novembre 1943, un plotone di militi circondò l’edificio, in parte incendiandolo ed al termine della sparatoria i sette fratelli, dopo essersi arresi, vennero catturati e condotti al carcere politico dei Servi a Reggio Emilia. Stessa sorte toccò al padre Alcide che non volle abbandonarli, al compagno partigiano Quarto Camurri  e ad alcuni ex prigionieri alleati, tra i quali Dante Castellucci che si fece passare per francese.

Alla fine la casa della famiglia venne completamente bruciata dai fascisti, con le donne ed i bambini abbandonati in strada.

Papà Cervi era ancora in cella e non fu nemmeno informato quando i suoi figli vennero condannati a morte e fucilati al poligono di tiro di Reggio, alle ore 6,30 del 28 dicembre 1943.

“Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti”. Queste le parole del vecchio “Cide” quando, tornato a casa dal carcere, seppe dalla moglie Genoeffa la tragica fine dei suoi ragazzi.

Da quel giorno infatti, furono le donne dei Cervi a lavorare la terra con Alcide e con gli 11 nipoti.

Nell’immediato dopoguerra, il Presidente della Repubblica appuntò sul petto del vecchio padre sette Medaglie d’Argento, simbolo del sacrificio dei suoi figli.

Papà Cervi viaggiò in mezzo mondo, rappresentando la Resistenza italiana, partecipando alle grandi manifestazioni politiche, partigiane ed antifasciste.

Morì a 94 anni il 27 marzo 1970, salutato ai suoi funerali da oltre 200.000 persone.

La casa del Cervi è oggi uno straordinario museo della storia dell’agricoltura, dell’antifascismo e della Resistenza.

 

venerdì 9 febbraio 2024

 

Otello Putinati



Nato a Ferrara il 25 agosto 1899, deceduto a Bologna il 19 dicembre 1952, operaio e dirigente politico e sindacale.

Cominciò a lavorare, giovanissimo, da pastaio. Chiamato alle armi durante la guerra 1915-18, fu ferito in combattimento. Nel dopoguerra, Putinati s'impegnò nell'attività politica e nel 1921 fu tra i primi dirigenti della Federazione comunista, incaricato di curare il lavoro giovanile. 

Dopo l'avvento del fascismo divenne segretario della Federazione e passò alla lotta clandestina. Nell'ottobre del 1927, dopo la promulgazione delle "Leggi eccezionali", il primo arresto con altri comunisti ferraresi e bolognesi e la prima sentenza del Tribunale speciale che, il 19 febbraio 1929, lo condannò a 2 anni di reclusione. Scontata la pena Putinati tentò un collegamento con il Centro estero del suo partito a Parigi, ma fu di nuovo arrestato e processato. Questa volta la condanna fu a 4 anni di carcere, non tutti scontati per l'amnistia del decennale. Nel 1933 nuovo arresto e terza condanna: 16 anni di reclusione. Rinchiuso nel carcere di Pianosa, l'indomito comunista vi restò 6 anni e quando uscì e tornò nella sua città, fu sottoposto a continua sorveglianza e a frequenti arresti. Anche durante i quarantacinque giorni del Governo Badoglio la polizia non lo perdette di vista, ma lui (in condizioni di semiclandestinità), continuò il lavoro di organizzazione della struttura comunista ferrarese.

 Il giorno dopo l'annuncio dell'armistizio, Putinati guidò l'imponente manifestazione popolare che si svolse a Ferrara per la pace e contro l'occupazione tedesca. Per ragioni di sicurezza il PCI lo inviò ad operare nel Modenese e nel Reggiano, ma agli inizi del 1945 ecco di nuovo Putinati a Bondeno dove diresse quel CLN e dove fu tra i promotori della manifestazione contro la guerra che si svolse nella piazza antistante quel Municipio. 

Dopo aver preparato l'insurrezione di Reggio Emilia, a Putinati toccò, dopo la Liberazione di Ferrara, l'incarico di segretario della Camera del Lavoro di quella provincia. Nel 1946, eccolo consigliere al Comune di Ferrara e, nelle elezioni del 1948 per il primo Parlamento repubblicano, eccolo senatore eletto nelle liste del Fronte democratico popolare. Nel 1949, Otello Putinati fu nominato segretario della Federazione lavoratori edili della CGIL e nell'ottobre successivo diresse di nuovo, sino a che non morì prematuramente, la CdL di Ferrara.

 La sua città natale gli ha dedicato una strada. Portano il suo nome una Polisportiva ferrarese e anche un classico Trofeo di bocce, intitolato "Senatore Otello Putinati". Sul muro della casa che Putinati abitò nel popolare Borgo ferrarese di San Luca, c'è una lapide con questa epigrafe:

 "Cittadino ricorda/ che il fascismo non è caduto da solo/ che da solo non sorgerà un mondo migliore. / Per questo/ Otello Putinati/ poco dimorò/ nella povera esistenza di questa casa/ ove pure lo chiamava l'affetto dei suoi cari/ ma fuori, nelle lotte/ con gli umili, con gli operai, con gli oppressi/ visse indomito fra l'uno e l'altro carcere/ fino alla morte."

mercoledì 24 giugno 2020

DUE BANCHIERI NELLA RESISTENZA ROMANA - RAFFAELE MATTIOLI E STEFANO SIGLIENTI

DUE BANCHIERI NELLA RESISTENZA ROMANA 

RAFFAELE MATTIOLI E STEFANO SIGLIENTI 
 


Abbiamo completato sul sito piazzascala.it il libro dell’Archivio Storico “Due banchieri nella Resistenza Romana: Raffaele Mattioli e Stefano Siglienti” ; ritenendo di fare cosa gradita, abbiamo pensato di inviarlo via mail agli ex Comit; cliccate sul link sottostante per visualizzare l’indice:

 http://www.piazzascala2018.altervista.org/mondocomit/fatti/libro/index.html

Piazzascala.it

Lavoro molto interessante. 32 pagine piene di storia. 

NonnoKucco, ex Comit

lunedì 27 aprile 2020

25 APRILE 2020 - ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE - RIFLESSIONI DI PAOLO MALAGUTI

Tutto quello che segue è stato copiato dal blog di Paolo Malaguti e ho deciso di pubblicare le sue riflessioni sull'Anniversario della Liberazione perchè le condivido completamente.

Paolo Malaguti ha pubblicato diversi libri: tutti da leggere; prossimamente uscirà il suo ultimo romanzo - SE L'ACQUA RIDE





Per saperne di più......


Buon 26 aprile!
Buon 26 aprile! Il 25 Liberazione e Resistenza si celebrano, dal 26 in poi dovremmo esercitarle. Come? Sono due sostantivi differenti ma legati assieme da una base semantica di forza. La liberazione appare dinamica, si accampa nella mente come movimento, rottura di vincoli. La resistenza rimanda a una forza statica e passiva: riuscire a non muoversi in seguito a una spinta, non cedere a una pressione, tener botta.
Alla luce di ciò mi pare che la resistenza sia propedeutica alla liberazione. Cioè: in una condizione di costrizione, prima resisto alla stessa, e poi mi libero.
Pescando dal latino, possiamo ipotizzare che la liberazione sia connessa al termine VIS, la forza dinamica, mentre la resistenza sia legata al termine ROBUR (o robus), la forza statica, della quercia saldamente ancorata al terreno.
Nella celebrazione del 25 aprile le formule utilizzate afferiscono in gran parte alla "liberazione dall'occupazione nazifascista".
Formula abbastanza generica, ma che viene naturale calare nell'ultimo momento del fascismo e della guerra, dall'otto settembre del '43 in poi.
Credo che le categorie Liberazione e Resistenza debbano essere rapportate, sempre e con chiarezza, all'intero ventennio fascista. Solo così possono assumere dei contorni più chiari le scelte e i gesti di chi seppe resistere e di chi seppe liberare.
Per venti anni il fascismo ha governato l'Italia. Per vent'anni agli occhi dei cittadini fascismo e Stato si sono mostrati come entità sovrapposte e intrecciate, e per vent'anni il fascismo ha penetrato i gangli più profondi della macchina statale e della società, costruendo un sistema che, tra gli altri, aveva l'obiettivo di autolegittimarsi.
Attenti alle azioni più eclatanti che il fascismo ha compiuto per costituire e poi mantenere la sua struttura, a volte dimentichiamo quanto il fascismo entrasse nelle vite "normali" dei cittadini.
Porto due esempi (anche in foto), che ho ripescato nella mia libreria.
Il primo è una versione di latino, tratta dal volumetto "Epitome di Cultura Fascista" (rispetto le maiuscole per rigore filologico), sottotitolo: "Ad uso degli alunni del II III e IV anno di Latino". Anno di edizione 1938-XVI.
La terza versione, che trovate in foto, si intitola "Vir", e inizia così "Benitus Mussolini ex humili opifice natus sollertique ludi magistra naturam ferocem sortitus est".
La seconda foto ci porta sul Grappa. Si tratta di un opuscolo dal titolo "Monte Grappa tu sei la mia patria...", costo lire 2, senza anno di pubblicazione; è una piccola guida, che potremmo definire storico-turistico-patriottica, al sacrario del Grappa.
Il testo che spiega la storia del sacrario e di Cima Grappa si presenta come il discorso che un padre, reduce di guerra, fa a suo figlio, che ha accompagnato in pellegrinaggio in quei luoghi.
Riporto le prime righe, credo siano sufficienti:
"Vieni, figliuolo, t'ho insegnato quand'eri bimbo, a scoprirti il capo entrando in chiesa. Ora togliti il fez nero, che fa sì bella la tua fronte. Ricordati: ti ho messo questa camicia non per sfilare nei cortei cittadini e fare il bello in piazza. Ti ho voluto fascista perch'io fui combattente".
Quindi: gli italiani nati (vado a spanne, ma il senso è chiaro) tra il 1910 e il 1930 sono cresciuti in un sistema che usava tutti i mezzi a sua disposizione per fascistizzare i propri cittadini.
Ogni volta che leggo testi del genere mi pongo due domande.
La prima: se fossi stato io uno di quei liceali del 1938, sarei stato in grado di non essere fascista? Non lo so. Sono stato uno studente molto timoroso dell'autorità, molto diligente e desideroso di avere successo seguendo le regole che mi venivano mostrate. Quindi forse avrei accettato quanto mi veniva insegnato da persone di cui mi fidavo.
La seconda domanda è spesso al centro delle discussioni quando vado nelle scuole a parlare di "Prima dell'alba". Appare chiaro che, alla luce di quanto ci siamo detti, resistenza e liberazione si configurarono, in ogni antifascista e in ogni partigiano, specie se giovani, in almeno un momento iniziale di rottura delle regole, di disubbidienza.
Quindi, seguendo questo ragionamento, è chiaro che riconoscere nella Resistenza e nella Liberazione due elementi fondativi dell'Italia democratica e repubblicana, significa riconoscere nella disubbidienza un sale importante del vivere civile. O almeno, ragionando "e contrario": riconoscere che l'ubbidienza non è (lo metto in maiuscolo via), NON E' un valore etico in sé.
Mi appoggio a due citazioni, il "nessun uomo ha il diritto di obbedire" di Hannah Arendt, e "l'obbedienza non è più una virtù" di Don Milani.
Arrivo alla domanda che mi pongo sempre con grande difficoltà in qualità di insegnante: sono dunque in grado di comunicare ai miei studenti che l'ubbidienza non è in sé un valore? Che può arrivare un momento in cui la disubbidienza è la via? Ancora, sono in grado di lavorare con loro perché maturino la più sfuggente e nobile delle competenze, il pensiero critico che li metta in condizione di capire in autonomia se e quando le regole che rispettano sono ingiuste?
Grazie a dio ci sono le domande ad animare le nostre vite!






martedì 13 agosto 2019

VIVIANI FRANCESCO

Francesco Viviani

Nato a Verona il 20 dicembre 1881, morto a Buchenwald (Germania) il 9 aprile 1945, laureato in Lettere e in Giurisprudenza.

ECCIDIO DELLA CERTOSA

ECCIDIO DELLA CERTOSA -FERRARA

11 agosto 1944 e 20 agosto 1944


Eccidio della Certosa - via Borso D’Este 50

Alla Certosa, per rappresaglia dell’uccisione del maresciallo di Pubblica Sicurezza, Mario Villani, vengono fucilate in due diverse occasioni nove persone. L’11 agosto sono assassinati sette antifascisti, fra resistenti e gappisti. Il 20 agosto vengono fucilati altri due resistenti. Questo eccidio rappresentò un durissimo colpo per l’organizzazione partigiana. Alle ore 4,45 dell’11 agosto, dopo efferate torture, furono fucilati da un plotone di esecuzione formato esclusivamente da fascisti: Destino Sivieri Tersillo, nato a Coccanile di Copparo nel 1913 e abitante a Cocomaro di Focomorto, Borgo Marighella; Guido Droghetti, nato a Quacchio nel 1914 e abitante a Pontegradella; Amleto Piccoli, nato a Pilastri di Bondeno nel 1912 e abitante a Ferrara, in via Argine Ducale; Gateano Bini, detto “Mario”, nato a Rero di Formignana nel 1894 e abitante a Ferrara in Borgo San Luca; Guido Fillini, nato a Occhiobello (Rovigo) nel 1898 e abitante a Francolino; Romeo Bighi, nato a Lagosanto nel 1923 e domiciliato a Venezia Lido. Un altro prigioniero, ugualmente destinato alla fucilazione, Jovanti Balestra, riuscì a fuggire e a sopravvivere. La sera del 20 agosto furono uccisi, sempre alla Certosa, Donato Cazzato, originario di Acquariga del Capo (Lecce) dove era nato nel 1922 e residente a Ferrara in via G. Fabbri, e Mario Zanella, nato a Padova nel 1918 e residente a Ferrara. Un altro componente del gruppo, individuato nel corso delle indagini avviate in seguito all’uccisione del Maresciallo di PS Mario Villani da parte di un gappista, fu trattenuto nei locali della Questura di Ferrara e,  sottoposto a feroci interrogatori e torture, si autoaccusò, con molta probabilità senza portarne la responsabilità diretta e materiale, dell’uccisione del Villani. Morì nei locali della Questura, secondo la versione ufficiale per essersi suicidato, con un colpo di pistola, mentre era ammanettato. Si trattava di Mario Bisi, nome di battaglia “Augusto”, nato a Ferrara nel 1911 e abitante fuori Porta Mare. La gran parte dei componenti del gruppo era stato arrestato precedentemente, per azioni e propaganda antifascista svolte nella fabbrica in cui lavoravano come operai, la “Gomma Sintetica”, nucleo originario della Montecatini, poi Montedison, sorta nella zona industriale di Ferrara. Non erano quindi coinvolti nell’uccisione del Maresciallo Villani, la loro esecuzione fu effettuata per rappresaglia. 
 
 


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lunedì 12 agosto 2019

SANT' ANNA DI STAZZEMA - 12 AGOSTO 1944

SANT'ANNA DI STAZZEMA - 12 AGOSTO 1944

Per non dimenticare

Gli orrori di una guerra, di tutte le guerre

A Sant’Anna di Stazzema, la mattina del 12 agosto 1944, si consumò uno dei più atroci crimini commessi ai danni delle popolazioni civili nel secondo dopoguerra in Italia.

La furia omicida dei nazi-fascisti si abbattè, improvvisa e implacabile, su tutto e su tutti. Nel giro di poche ore, nei borghi del piccolo paese, alla Vaccareccia, alle Case, al Moco, al Pero, ai Coletti, centinaia e centinaia di corpi rimasero a terra, senza vita, trucidati, bruciati, straziati.

Quel mattino di agosto a Sant’Anna uccisero i nonni, le madri, uccisero i figli e i nipoti. Uccisero i paesani ed uccisero gli sfollati, i tanti saliti, quassù, in cerca di un rifugio dalla guerra. Uccisero Anna, l’ultima nata nel paese di appena 20 giorni, uccisero Evelina, che quel mattino aveva le doglie del parto, uccisero Genny, la giovane madre che, prima di morire, per difendere il suo piccolo Mario, scagliò il suo zoccolo in faccia al nazista che stava per spararle, uccisero il prete Innocenzo, che implorava i soldati nazisti perché risparmiassero la sua gente, uccisero gli otto fratellini Tucci, con la loro mamma. 560 ne uccisero, senza pietà in preda ad una cieca furia omicida. Indifesi, senza responsabilità, senza colpe. E poi il fuoco, a distruggere i corpi, le case, le stalle, gli animali, le masserizie. A Sant’Anna, quel giorno, uccisero l’umanità intera.

La strage di Sant’Anna di Stazzema desta ancora oggi un senso di sgomento e di profonda desolazione civile e morale, poiché rappresenta una delle pagine più brutali della barbarie nazifascista, il cancro che aveva colpito l’Europa e che devastò i valori della democrazia e della tolleranza. Rappresentò un odioso oltraggio compiuto ai danni della dignità umana. Quel giorno l’uomo decise di negare se stesso, di rinunciare alla difesa ed al rispetto della persona e dei diritti in essa radicati.


L' ECCIDIO]

Il 12 agosto del ’44

Fu un massacro...

All’alba del 12 agosto, reparti di SS, in tutto alcune centinaia, in assetto di guerra, salirono a Sant’Anna da Vallecchia-Solaio, Ryosina, Mulina di Stazzema e Valdicastello, utilizzando queìali portatori alcuni uomini catturati precedentemente nella piana della Versilia.
Verso le sette il paese era ormai circondato. Gli abitanti non pensavano ad una strage, ma piuttosto ad una normale operazione di rastrellamento. Molti uomini infatti fuggirono, nascondendosi nei boschi.
Troppo tardi si accorsero delle reali intenzioni dei nazisti.

Così lo scrittore Manlio Cancogni narra gli avvenimenti di quella terribile giornata:

« I tedeschi, a Sant’Anna, condussero più di 140 esseri umani, strappati a viva forza dalle case, sulla piazza della chiesa. Li avevano presi quasi dai loro letti; erano mezzi vestiti, avevano le membra ancora intorpidite dal sonno; tutti pensavano che sarebbero stati allontanati da quei luoghi verso altri e guardavano i loro carnefici con meraviglia ma senza timore nè odio.

Li ammassarono prima contro la facciata della chiesa, poi li spinsero nel mezzo della piazza, una piazza non più lunga di venti metri e larga altrettanto una piazza di tenera erba, tra giovani piante di platani, chiusa tra due brevi muriccioli;
e quando puntarono le canne dei mitragliatori contro quei corpi li avevano tanto vicini che potevano leggere negli occhi esterrefatti delle vittime che cadevano sotto i colpi senza avere tempo nemmeno di gridare.

Breve è la giustizia dei mitragliatori; le mani dei carnefici avevano troppo presto finito e già fremevano d’impazienza. Così ammassarono sul mucchio dei corpi ancora tiepidi e forse ancora viventi, le panche della chiesa devastata, i materassi presi dalle case, e appiccarono loro fuoco.

E assistendo insoddisfatti alla consumazione dei corpi spingevano nel braciere altri uomini e donne che esanimi dal terrore erano condotti sul luogo, e che non offrivano alcuna resistenza.

Intanto le case sparse sulle alture, le povere case di montagna, costruite pietra su pietra, senza intonaco, senza armature, povere come la vita degli uomini che ci vivevano erano bloccate.

Gli abitanti erano spinti negli anditi, nelle stanze a pianterreno e ivi mitragliati e, prima che tutti fossero spirati, era dato fuoco alla casa; e le mura, i mobili, i cadaveri, i corpi vivi, le bestie nelle stalle, bruciavano in un’unica fiamma. Poi c’erano quelli che cercavano di fuggire correndo fra i campi, e quelli colpivano a volo con le raffiche delle mitragliatrici, abbattendoli quando con grido d’angoscia di suprema speranza erano già sul limitare del bosco che li avrebbe salvati.

Poi c’erano i bambini, i teneri corpi dei bimbi a eccitare quella libidine pazza di distruzione. Fracassavano loro il capo con il calcio della «pistol-machine », e infilato loro nel ventre un bastone, li appiccicavano ai muri delle case. Sette ne presero e li misero nel forno preparato quella mattina per il pane e ivi li lasciarono cuocere a fuoco lento.
E non avevano ancora finito.

Scesero perciò il sentiero della valle ancora smaniosi di colpire, di distruggere, compiendo nuovi delitti fino a sera.

A mezzogiorno tutte le case del paese erano incendiate; i suoi abitanti fissi e gli sfollati erano stati tutti trucidati. Le vittime superano di gran lunga i cinquecento, ma il numero esatto non si potrà mai sapere.

"Alcuni scampati all’eccidio erano corsi in basso a portare la notizia agli abitanti della pianura raccolti in gran numero nella conca di Valdicastello. La notizia la portavano sui loro volti esterrefatti, nelle parole monche che erano appena capaci di pronunciare e dalle quali chi li incontrava capiva che qualcosa di terribile era accaduto pur senza immaginare le proporzioni. Della verità cominciarono invece a sospettare nelle prime ore del pomeriggio quando le prime squadre di assassini scendendo dalle alture di Sant’Anna, si annunciarono sull’imbocco della vallata a monte del paese.

Li sentivano venir giù precipitosi,accompagnati dal suono di organetti e di canzoni esaltate, e quel ch’è peggio dal rumore di nuovi spari, da nuove grida, che non convinti di aver ben speso quella giornata, i tedeschi la completavano uccidendo quanti incontravano sul sentiero della montagna.

Alcuni che al loro passaggio s’erano nascosti nelle antrosità della roccia vi furono bruciati dentro dal getto del lanciafiamme. Una donna che correva disperata portando in salvo la sua creatura, raggiunta che fu, le strapparono dalle braccia il prezioso fardello, lo scagliarono nella scarpata e lei stessa l’uccisero a colpi di rivoltella nel cranio. Molti altri furono raggiunti dalle raffiche di mitragliatori mentre fuggivano saltando per le balze della montagna, come capre selvatiche contro le quali si esercitava la bravura del cacciatore.

Quando i tedeschi raggiunsero Valdicastello cominciando a rastrellare gli abitanti, il paese era già stretto dall’angoscia; gli abitanti serrati nelle case e nascosti alla meglio; la strada deserta; tutti oppressi da un incubo di morte. Il passaggio dei tedeschi dal paese si chiuse con la discesa del buio sulla valle, dopodichè ottocento uomini erano stati strappati dalle case e condotti via, e un’ultima raffica di mitragliatrice accompagnata da un suono più sguaiato e atroce di organetto, aveva tolto la vita ad altri quattordici infelici, scelti a caso ».


Fonte:http://www.santannadistazzema.org/sezioni/LA%20MEMORIA/

venerdì 17 maggio 2019

IL MANIFESTO DI VENTOTENE - PER UN'EUROPA LIBERA E UNITA

Il Manifesto di Ventotene fu originariamente redatto da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi con il titolo Per un'Europa libera e unita. Progetto d'un manifesto nel 1941, quando per motivi politici furono confinati a Ventotene, nel mar Tirreno come oppositori del regime fascista. Altri confinati antifascisti sull'isola contribuirono alle discussioni che portarono alla definizione del testo. All'epoca della stesura del testo erano confinate sull'isola circa 800 persone, 500 classificate come comunisti, 200 come anarchici ed i restanti prevalentemente giellini e socialisti.
Originariamente articolato in quattro capitoli, il Manifesto fu poi diffuso clandestinamente. Eugenio Colorni nel 1944, poco prima di essere ucciso, ne curò la redazione in tre capitoli: il primo (La crisi della civiltà moderna) e il secondo (Compiti del dopoguerra. L'unità europea) interamente elaborati da Spinelli, come anche la seconda parte del terzo (Compiti del dopoguerra. La riforma della società), mentre la prima parte di quest'ultimo venne definita da Rossi.
Il manifesto venne diffuso grazie ad alcune donne che lo portarono sul continente dall'isola di Ventotene e lo fecero conoscere agli ambienti dell'opposizione di Roma e Milano, come Ursula Hirschmann, Ada Rossi ed alcune altre.

Per approfondire:
Testo del Manifesto di Ventotene:


  ALTIERO SPINELLI


 ERNESTO ROSSI



EUGENIO COLORNI 


  URSULA HIRSCHMANN

giovedì 9 maggio 2019

25 APRILE - RIFLESSIONI DI PAOLO MALAGUTI

Tutto quello che segue è stato copiato dal blog di Paolo Malaguti e ho deciso di pubblicare le sue riflessioni sull'Anniversario della Liberazione perchè le condivido completamente.

Paolo Malaguti ha pubblicato diversi libri: tutti da leggere; a fine maggio uscirà il suo ultimo romanzo - L' ULTIMO CARNEVALE.

Per saperne di più......

Un libro e una riflessione



Sul baricentro tra la giornata mondiale del libro e il 25 aprile mi permetto di suggerire una lettura tesa ed appassionante, e diversamente non poteva essere, visto l'autore. Emilio Lussu scrive "Marcia su Roma e dintorni" nel 31. Il libro venne rivolto, come annota l'autore nella prefazione all'edizione italiana del 1944, "al pubblico francese e angloamericano".
In questo libro si trova il resoconto in presa diretta del decennio 19-29, con particolare attenzione alla fase che culmina con la marcia su Roma dell'ottobre del 1922. Lussu racconta l'ascesa del fascismo con lucidità e, non di rado, con ironia; dà spessore alla narrazione con nomi, fatti, voci dei protagonisti piccoli e grandi. Non è un saggio, Lussu lo definisce "documento soggettivo ". Perché ho letto "Marcia su Roma e dintorni"?

Per ricordarmi che la Resistenza, a ben vedere, dura lungo tutto il ventennio, perché da subito ci fu chi si oppose e lottò e cercò di far valere le proprie ragioni contro la dittatura nascente.
Per ricordarmi, ancora di più, che il fascismo non è nato forte, né vincente. Mussolini, prima di sedersi alla Camera come presidente del consiglio, il 16 novembre del 22, avendo ai suoi fianchi il generale Diaz e l'ammiraglio Thaon di Revel, ha dovuto fare strada. Il fascismo si è affermato anche perché gli è stato permesso. A tutti i livelli. Dai prefetti che, come narra Lussu, in più parti d'Italia lasciarono correre sui primi episodi di squadrismo, o appoggiarono apertamente le camicie nere, fino al re che si rifiutò di firmare il decreto di stato d'assedio proposto dall'on. Facta, decreto che con ogni probabilità avrebbe messo la parola fine alla marcia su Roma.
Per ricordarmi, infine, che il "consenso" è fatto dalla somma degli individui. Lussu dissemina tutto il libro di riferimenti ad amici, deputati, docenti universitari, giornalisti, sindacalisti, reduci... tutti fieri antifascisti della prima ora e, nel momento in cui il libro uscì, il 1931, altrettanto fieri esponenti del regime.
Tra le figure di resistenti "ante 43" narrate da Lussu propongo quella dell'onorevole Misiano. Già socialista, fu eletto nel 1921 nel partito comunista: alla seduta inaugurale della XXVI legislatura del Regno d'Italia fu aggredito da un gruppo di deputati fascisti e cacciato fuori da Montecitorio. All'esterno Misiano venne aggredito da squadristi che lo rasarono, gli sputarono addosso, lo insozzarono di vernice e lo fecero sfilare lungo il Corso. Questo capita nel 1921, a Montecitorio, e per le strade di Roma, in pieno giorno.
I motivi per cui Misiano era particolarmente inviso ai fascisti vanno cercati, al di là dell'appartenenza al PCI, nel suo antimilitarismo, nell'anti-interventismo, e nella sua condanna per diserzione nel maggio del 1915.

Le polemiche che ogni anno interessano il 25 aprile (quest'anno in particolar modo) sono l'ennesima conferma del cammino ancora lungo che il nostro paese deve fare per costruirsi una memoria condivisa. Spesso mi è capitato di riflettere su questo problema negli incontri con gli studenti: un paese senza memoria condivisa è un paese diviso. Magari la facciata dell'edificio è unita, ma le fondamenta sono separate. Il cammino è difficile, perché tocca ferite ancora aperte, ma non mi pare ci siano alternative.
E questo cammino credo debba partire dalla memoria, dalla ricerca, dallo studio delle fonti e dei testimoni, e poi dal confronto.
Per questo, da insegnante, credo che negarsi al 25 aprile sia un'occasione persa.
Devo dire che, sempre da insegnante, le ottiche celebrative mi lasciano perplesso, perché spesso la celebrazione implica l'agiografia, la aproblematicità, un certo tasso ineliminabile di eroismo. Perché un sedicenne dovrebbe trovare senso in qualcosa che è già dato, irrigidito nella posa assoluta del monumento, illuminato da una luce diffusa e candida che non lascia spazio a dubbi o a interpretazioni? Se sei un eroe, dov'è la difficoltà nelle tue imprese? Se il giusto e lo sbagliato sono ben divisi e riconoscibili di fronte a te, dov'è la difficoltà, la tragicità delle tue scelte?
Se invece il 25 aprile, il 4 novembre, il 2 giugno vengono vissuti come occasioni di commemorazione (cioè di "memoria assieme"), le cose cambiano, e non di poco: si mostra, attraverso la memoria della Storia e delle storie, quanto drammatica possa essere una scelta, quanto difficile è capire, ogni giorno, dov'è il bene e dov'è il male. Si capisce che una scelta non si compie mai una volta per tutte, ma poi va riconfermata, o smentita, per il resto della nostra vita. Che le nostre idee sono una cosa, e le nostre azioni spesso un'altra. Che lo Stato è fatto da persone, e pertanto è soggetto all'errore. Che si può mettere una data di fine a una guerra, ma poi i rancori, i conflitti, i dissidi e le ferite vanno avanti per decenni.
Chiaro, fare tutto ciò non è facile, non è rapido, non è economico. Sono più veloci le altre due strade, ugualmente rischiose:
a) fingere che la storia sia solcata da chiari confini, da + e - squadrati e lisci. Questa strada porta agli estremismi, e, di conseguenza, ai muri e alle esclusioni.
b) rinunciare alla memoria, perché sono "altri" i problemi cui oggi porre attenzione, piuttosto che un polveroso "derby" tra rossi e neri. Questo porta all'ignoranza e, di conseguenza, al rischio della ripetizione.


Nel libro di Gianrico Carofiglio "La versione di Fenoglio", da me letto subito dopo il libro di Emilio Lussu, sopra ricordato, il protagonista, Pietro Fenoglio,  parla dei libri di Lussu:

 " Ce n'è un altro suo che forse è addirittura migliore: Marcia su Roma e dintorni.  La storia dell'avvento del fascismo con tutte le mediocrità, le vigliaccherie, le miserie, i voltafaccia. Lo so che sto per dire una banalità, ma è un libro che sembra scritto oggi per raccontare cosa succede ora in questo Paese."

giovedì 25 aprile 2019

25 APRILE 2019 - ANNIVERSARIO DELLA LIBERAZIONE

LA LIBERTA'
E' COME L'ARIA:
CI SI ACCORGE DI QUANTO
VALE QUANDO
COMINCIA A MANCARE

Piero Calamandrei
21/4/1889 - 27/9/1956
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Albert Kesselring, che durante il secondo conflitto mondiale fu il comandante delle forze armate germaniche in Italia, a fine conflitto (1947) fu processato e condannato a morte per i numerosi eccidi che l'esercito nazista aveva commesso ai suoi ordini (Fosse ArdeatineStrage di Marzabotto e molte altre). Successivamente la condanna fu commutata in ergastolo, ma egli venne rilasciato nel 1952 per le sue presunte gravi condizioni di salute. Tale gravità fu smentita dal fatto che Kesselring visse altri otto anni libero nel suo Paese, ove divenne quasi oggetto di culto negli ambienti neonazisti della Baviera.
Tornato libero, Kesselring sostenne di non essere affatto pentito di ciò che aveva fatto durante i 18 mesi nei quali tenne il comando in Italia ed anzi dichiarò che gli italiani, per il bene che secondo lui aveva loro fatto, avrebbero dovuto erigergli un monumento. In risposta a queste affermazioni Piero Calamandrei scrisse la celebre epigrafe, dedicata a Duccio Galimberti, "Lo avrai, camerata Kesselring...", il cui testo venne posto sotto una lapide ad ignominia di Kesselring stesso, deposta dal comune di Cuneo, e poi affissa anche a Montepulciano, in località Sant'Agnese, a Sant'Anna di Stazzema, ad Aosta, ai piedi del faro di Prarostino, all'ingresso delle cascate delle Marmore e a Borgo San Lorenzo, sull'antico palazzo del Podestà.

Lo avrai, camerata Kesselring...
Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA



Nato a Firenze il 21 aprile 1889, deceduto a Firenze il 27 settembre 1956, giurista e scrittore politico.
Di antica famiglia di giuristi (suo padre, professore e avvocato, era stato anche deputato repubblicano), si era laureato a Pisa nel 1912. Nel 1915 era già docente di procedura civile all'Università di Messina e, tolta la parentesi della prima guerra mondiale, avrebbe insegnato a Modena (1918), a Siena (1920) e, dal 1924 sino ai suoi ultimi giorni, nell'Ateneo fiorentino di cui fu rettore. Interventista, Calamandrei aveva partecipato da volontario alla guerra 1915-18 come ufficiale di Fanteria, ma nonostante la promozione a tenente colonnello, preferì riprendere la carriera accademica.
L'avvento del fascismo lo portò ad impegnarsi contro la dittatura. Di qui la collaborazione con Salvemini e poi con i fratelli Rosselli, con i quali fondò il Circolo di Cultura di Firenze che, nel 1924, dopo essere stato devastato dagli squadristi, fu definitivamente chiuso per ordine prefettizio. La violenza fascista non spaventò il professore, che partecipò alla pubblicazione del Non mollare e all'associazione “Italia Libera”, che avrebbe più tardi ispirato il movimento “Giustizia e Libertà” e poi il Partito d'Azione. Piero Calamandrei, che aveva anche aderito all'Unione nazionale antifascista promossa da Giovanni Amendola e che, nel 1925, aveva sottoscritto il manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, dopo il consolidarsi della dittatura tornò ai suoi studi giuridici (sua è l'Introduzione allo studio delle misure cautelari del 1936), pur mantenendo sempre i contatti con l'emigrazione antifascista.
Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei e membro della regia commissione per la riforma dei codici, fu uno dei principali ispiratori del Codice di procedura civile del 1940. Ciononostante, quando gli fu chiesto di sottoscrivere una lettera di sottomissione a Mussolini, Calamandrei preferì dimettersi dall'incarico universitario, che avrebbe ufficialmente ripreso, come rettore, alla caduta del fascismo. L'atteggiamento dell'eminente studioso, com'ebbe a scrivere Norberto Bobbio, “fu di solitario disdegno...”, poiché “...verso i padroni e i loro servitori, non si saprebbe dire quale dei due detestasse di più”.
Calamandrei, che nel 1942 fu tra i fondatori del Partito d'Azione, dopo 1'armistizio, inseguito da un mandato di cattura, si rifugiò in Umbria. Di qui seguì, “con trepidazione e fierezza”, la nascita e l'espansione del movimento partigiano, mantenendo contatti e collaborando con la Resistenza, nella quale fu particolarmente attivo il figlio Franco.
Dopo la Liberazione, Piero Calamandrei fu nominato membro della Consulta nazionale e dell'Assemblea Costituente in rappresentanza del Partito d'Azione. Quando il PdA si sciolse, entrò a far parte del Partito socialdemocratico, per il quale fu eletto deputato nel 1948. Nel 1953, contrario alla “legge truffa”, sostenuta anche dai socialdemocratici, prese parte, con l'amico Ferruccio Parri, alla fondazione di “Unità Popolare”, che contribuì ad impedirne l'approvazione. Fondatore, del settimanale politico-letterario Il Ponte, che diresse dopo la Liberazione per dodici anni, Piero Calamandrei fu anche direttore della Rivista di diritto processuale, de Il Foro toscano e del Commentario sistematico della Costituzione italiana. Molto apprezzato dai cultori del Diritto, il suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato e, memorabile per efficacia, l'epigrafe dettata da Calamandrei per la Lapide ad ignominia, che il Comune di Cuneo ha dedicato al generale nazista, criminale di guerra, Albert Kesselring.