giovedì 13 agosto 2020

S.ANNA DI STAZZEMA - 12 AGOSTO 1944

 

Per non dimenticare

Gli orrori di una guerra, di tutte le guerre

A Sant’Anna di Stazzema, la mattina del 12 agosto 1944, si consumò uno dei più atroci crimini commessi ai danni delle popolazioni civili nel secondo dopoguerra in Italia.

La furia omicida dei nazi-fascisti si abbattè, improvvisa e implacabile, su tutto e su tutti. Nel giro di poche ore, nei borghi del piccolo paese, alla Vaccareccia, alle Case, al Moco, al Pero, ai Coletti, centinaia e centinaia di corpi rimasero a terra, senza vita, trucidati, bruciati, straziati.

Quel mattino di agosto a Sant’Anna uccisero i nonni, le madri, uccisero i figli e i nipoti. Uccisero i paesani ed uccisero gli sfollati, i tanti saliti, quassù, in cerca di un rifugio dalla guerra. Uccisero Anna, l’ultima nata nel paese di appena 20 giorni, uccisero Evelina, che quel mattino aveva le doglie del parto, uccisero Genny, la giovane madre che, prima di morire, per difendere il suo piccolo Mario, scagliò il suo zoccolo in faccia al nazista che stava per spararle, uccisero il prete Innocenzo, che implorava i soldati nazisti perché risparmiassero la sua gente, uccisero gli otto fratellini Tucci, con la loro mamma. 560 ne uccisero, senza pietà in preda ad una cieca furia omicida. Indifesi, senza responsabilità, senza colpe. E poi il fuoco, a distruggere i corpi, le case, le stalle, gli animali, le masserizie. A Sant’Anna, quel giorno, uccisero l’umanità intera.

La strage di Sant’Anna di Stazzema desta ancora oggi un senso di sgomento e di profonda desolazione civile e morale, poiché rappresenta una delle pagine più brutali della barbarie nazifascista, il cancro che aveva colpito l’Europa e che devastò i valori della democrazia e della tolleranza. Rappresentò un odioso oltraggio compiuto ai danni della dignità umana. Quel giorno l’uomo decise di negare se stesso, di rinunciare alla difesa ed al rispetto della persona e dei diritti in essa radicati.
 
 
Per approfondire:

ROSSONI EDMONDO

Tresigallo (Ferrara) -  6 maggio 1884 

Roma - 8 giugno 1965

Al Gran Consiglio del 25 luglio 1943 votò a favore dell’ordine del giorno Grandi. Dopo l’8 settembre si nascose ancora, questa volta nella procura romana dei suoi antichi educatori salesiani, e la neonata Repubblica sociale italiana (RSI) lo privò della dignità di ministro di Stato (decreto del duce, 30 novembre). Il 10 gennaio 1944 fu condannato a morte – in contumacia – dal tribunale speciale per la difesa dello Stato della RSI, in febbraio il capo della Provincia di Ferrara segnalò un’ingente quantità di valori interrata dalla sorella in Tresigallo e così nel marzo si trasferì nel monastero di Grottaferrata e dal 21 luglio nel santuario benedettino di Montevergine (Avellino). Il 6 dicembre anche le autorità del Regno d’Italia spiccarono un ordine di cattura nei suoi confronti.

Finito il conflitto, nell’ambito dell’epurazione per i crimini fascisti fu condannato all’ergastolo con sentenza n. 9 del 28 maggio 1945. Rimase contumace presso i benedettini, che gli fecero assumere l’identità di un religioso, a fine novembre lo ricondussero in un convento romano e poi, il 30 agosto 1946, riuscirono a fargli raggiungere la nunziatura apostolica di Dublino, da dove proseguì per il Canada. La fuga ebbe vasta risonanza di stampa, ma il 6 dicembre 1947 la sentenza n. 14 della Cassazione, in sezioni riunite speciali, annullò la condanna, permettendogli di rientrare in Italia.

Visse nella sfera privata a Roma e vi morì l’8 giugno 1965. 

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http://www.treccani.it/enciclopedia/edmondo-rossoni_%28Dizionario-Biografico%29/ 

 https://nonnokucco.blogspot.com/2014/07/rossoni-edmondo-tresigallo.html

 

PARESCHI CARLO

 

PARESCHI, Carluccio, poi Carlo.

 Poggio Renatico (Ferrara) - 19 agosto 1898 

Verona - 11 gennaio 1944

Diplomatosi perito agrimensore presso l’istituto tecnico di Ferrara, nel 1916 Carlo si iscrisse alla Scuola superiore di agraria dell’Università di Bologna. Chiamato alle armi nel marzo 1917, prestò servizio come tenente di complemento nel 6° reggimento di artiglieria pesante e venne decorato con la medaglia di bronzo.

Si avvicinò alle idee del combattentismo e del nazionalismo e, dopo il ritorno a casa, nell’aprile 1920 contribuì a fondare dapprima la sezione dell’Associazione nazionale combattenti di Poggio Renatico, e poi il fascio locale allineandosi alle posizioni di Italo Balbo, del quale divenne amico. Nel frattempo, il 2 dicembre del 1920, completava gli studi laureandosi in scienze agrarie. 

Il 23 marzo 1939 fu designato membro della Camera dei fasci e delle corporazioni (dove rimase in carica fino al 2 agosto 1943) e, negli stessi giorni, fu chiamato da Vittorio Cini a ricoprire la carica di segretario generale dell’E42, l’ente organizzatore dell’Esposizione universale che si sarebbe dovuta tenere a Roma nel 1942, di cui l’industriale ferrarese era diventato commissario. 

Nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, nell’ultima seduta del Gran Consiglio del fascismo anche Pareschi votò a favore dell’ordine del giorno presentato da Dino Grandi, probabilmente nell’intento di contrastare l’evidente sbando degli ordinamenti nazionali.

Rimasto a Roma fra la caduta del fascismo e il sopraggiungere dell’armistizio, il 4 ottobre 1943 venne arrestato a casa sua dai militi del neonato Partito fascista repubblicano (PFR), incarcerato a Regina Coeli e successivamente trasferito a Padova. Processato e condannato per tradimento, fu fucilato – insieme a Emilio De Bono, Galeazzo Ciano, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli – a Verona, presso il poligono di tiro di Forte S. Procolo, l’11 gennaio 1944. 

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http://www.treccani.it/enciclopedia/pareschi-carluccio-poi-carlo_(Dizionario-Biografico)/ 

MARINELLI GIOVANNI

Adria (Rovigo) - 18 ottobre 1879

Verona - 11 gennaio 1944

Nacque ad Adria (Rovigo), da Rinaldo e da Angelina Raule, il 18 ottobre1879. La famiglia, di media borghesia agraria, aveva conosciuto dissesti economici, tanto che  dovette abbandonare gli studi alla seconda ginnasiale. Iniziò presto a occuparsi di politica su posizioni socialiste.

Già nel 1898  era controllato dalle autorità per la sua attività sindacale nelle zone più povere del Polesine; collaboratore di giornali della sinistra socialista e sindacalista, era attivo in polemica con le frange riformiste del sindacato oscillando tra posizioni sindacaliste e anarchiche.

Ormai schierato sulle posizioni della sinistra socialista, proseguì nell’attività sindacale e dal 1914 fu membro della presidenza della Camera del lavoro di Milano; attivo durante la settimana rossa del giugno 1913, allo scoppio della prima guerra mondiale seguì la scelta interventista di Mussolini, si dimise polemicamente dal PSI e, nel dicembre, fu tra i fondatori del Fascio rivoluzionario interventista.

Dal gennaio del 1915 nel comitato centrale dei fasci d’azione rivoluzionaria, all’entrata dell’Italia nel conflitto si presentò volontario, ma fu riformato per un grave difetto alla vista, probabilmente dovuto al diabete; fu poi attivo a Milano con le forze interventiste e protagonista di incidenti con i neutralisti. Tra i fondatori dei Fasci italiani di combattimento, già nella riunione di piazza S. Sepolcro, il 23 marzo 1919, fu inserito nella giunta esecutiva e il 1° aprile entrò a far parte della commissione esecutiva.

Fino alla firma dell’ordine del giorno Grandi, il 25 luglio 1943,  si mantenne fedele a Mussolini, come attestano numerose testimonianze di protagonisti.

Grandi stesso, prima della riunione, non solo non considerava Marinelli a favore del suo ordine del giorno, ma lo includeva tra i decisamente contrari; oltre a sottolineare che questi era giunto alla seduta del Gran Consiglio «assolutamente ignaro», egli aggiunge di aver accolto «non senza stupore» la sua firma nella tarda nottata del 25 luglio (25 luglio quarant’anni dopo, p. 212). Anche  Bottai nel suo diario definisce «inaspettata» l’adesione di Marinelli all’ordine del giorno e il 14 gennaio 1944, dopo l’esecuzione seguita alla condanna a morte dei firmatari, ha queste parole pesanti nei suoi confronti: «fosco d’occhio e d’anima. Che egli abbia voluto “tradire” Mussolini non è immaginabile. Se non altro la sua cattiva coscienza di gerarca prepotente gliel’avrebbe impedito, ché solo un Mussolini poteva essere il suo degno protettore. Marinelli, piovuto per caso nella compagnia dei 19, dimostra da un punto di vista negativo l’inesistenza del tradimento, poiché egli era di quelli che non tradiscono se non le persone dabbene» (p. 486).

Arrestato a Roma,  entrò nel carcere veronese degli Scalzi il 4 novembre 1943. Durante il processo, nel quale fu difeso dall’avvocato C. Bonari di Verona, interrogato dal giudice istruttore V. Cersosimo  spiegò che aveva aderito all’ordine del giorno Grandi in quanto certo che tutto fosse stato concordato con Mussolini, come era sempre avvenuto in altre votazioni al Gran Consiglio.

Cianetti, suo compagno di prigionia per tre mesi, fornì particolari drammatici sulla situazione di Marinelli., che appariva abbattuto e quasi incapace di comprendere quanto stava avvenendo intorno a lui: alla lettura della sentenza, Marinelli non la capì e fu Ciano a dovergliela scandire. Estremamente prostrato, al momento dell’uscita dalla cella, prima dell’esecuzione, dovette essere sorretto da due agenti.

Il M. morì a Verona l’11 genn. 1944, fucilato alla schiena nel poligono di tiro della fortezza di S. Procolo.


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GRANDI DINO

 Mordano (presso Imola) - 14 giugno 1895

Bologna - 21 maggio 1988

Uomo politico italiano (Mordano 1895 - Bologna 1988). Combattente della prima guerra mondiale, dirigente del fascismo emiliano (deputato dal 1921), passò da posizioni rivoluzionarie a posizioni più moderate e filocostituzionali. Membro del Gran Consiglio del fascismo dal 1923, sottosegretario agli Interni (1924-25) e agli Esteri (1925-29), ministro degli Esteri (1929-32), ambasciatore a Londra (1932-39; notevole la sua politica di riconciliazione con l'Inghilterra), ministro guardasigilli (1939; riforma fascista dei codici) e presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni.

 La seduta del Gran Consiglio del 24 luglio 1943 e l'ordine del giorno che vi trionfò furono opera di Grandi (che era stato contrario all'entrata in guerra), il quale fu pertanto condannato a morte in contumacia dal tribunale di Verona (1944). Nel dopoguerra visse all'estero e trascorse in Italia gli ultimi anni. Pubblicò volumi di memorie: 25 luglio. Quarant'anni dopo (1983); Il mio paese. Ricordi autobiografici (1985).

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mercoledì 12 agosto 2020

GOTTARDI LUCIANO

San Bartolomeo in Bosco (Ferrara) - 19 febbraio 1899

Verona -11 gennaio 1944

Nacque il 19 febbraio 1899 a San Bartolomeo in Bosco, presso Ferrara, da Antonio ed Elvira Volta.

Il padre, un piccolo agricoltore, aveva diretto per molti anni a Ferrara un'azienda agricola di proprietà dei conti Minutoli di Lucca.

Diplomato in ragioneria, dopo la guerra si iscrisse alla facoltà di scienze economiche e commerciali dell'Università di Trieste, dove si era trasferito nell'agosto 1920, ma la passione per la politica gli fece interrompere anzitempo gli studi universitari, che non terminò mai. Nel settembre del 1920 si iscrisse al fascio triestino, partecipando a tutte le azioni più rilevanti condotte dal fascismo giuliano, allora diretto da F. Giunta.

E, molto probabilmente, è proprio in questa sua genuina ispirazione "riformistica", che va colto il motivo della sua chiamata alla presidenza della Confederazione fascista dei lavoratori dell'industria (CFLI) il 29 aprile 1943, quando al regime occorreva recuperare, almeno parzialmente, il consenso delle masse operaie, dopo i grandi scioperi del marzo precedente. Egli giungeva alla presidenza della CFLI in sostituzione di G. Landi; con la nomina assumeva anche la direzione della Rivista del lavoro, organo della Confederazione.

L'incarico confederale comportava l'ingresso di diritto al Gran Consiglio del fascismo. Pertanto con la riunione del 24 luglio 1943, che determinò la caduta di Mussolini, Gottardi, come del resto diversi altri membri, partecipava per la prima volta al Gran Consiglio, in quanto tale organismo non si riuniva più dal 7 dicembre 1939.

È accertato che  non concertò la sua adesione all'ordine del giorno Grandi con i promotori dell'iniziativa. Nel più volte ricordato memoriale a Pavolini del settembre 1943, egli sostenne, anzi, di non aver mai avuto alcun contatto ("mai stretta la mano o parlato, durante 23 anni") con quelli che sarebbero stati i protagonisti della "notte del Gran Consiglio". Egli si recò alla riunione senza sapere di cosa si sarebbe discusso; cercò di raccogliere qualche informazione da T. Cianetti, ma questi non seppe o non volle dirgli nulla. Tuttavia, finì per aderire all'ordine del giorno Grandi, poiché, come spiegò nella deposizione al processo di Verona, si convinse che il documento presentato da Grandi, auspicando un ritorno nelle mani del re della conduzione della guerra, "sgravava il Duce di molte responsabilità" (Cianetti, p. 467).

Il 16 agosto, P. Badoglio lo sollevò dall'incarico confederale; egli non si allontanò da Roma ma, appena seppe della liberazione di Mussolini e della costituzione della RSI, inviò a Pavolini, segretario del neonato Partito fascista repubblicano, la sua entusiastica adesione, accompagnando la richiesta con quel promemoria con cui intendeva in sostanza fornire spiegazioni circa il suo comportamento alla seduta del Gran Consiglio. Ma, evidentemente, le spiegazioni non sortirono l'effetto desiderato. Il nuovo regime lo considerava ormai, insieme con gli altri firmatari dell'ordine del giorno Grandi, un traditore.

Agli inizi di ottobre, venne arrestato dalla banda Pollastrini e rinchiuso a Regina Coeli, e successivamente trasferito nel carcere di Padova. Durante tutta la detenzione, il processo a Verona, e davanti al plotone d'esecuzione Gottardi mantenne un contegno sereno e coraggioso.

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FEDERZONI LUIGI

Bologna - 27 settembre 1878

Roma - 24 gennaio 1967

Dopo lo sbarco angloaniericano in Sicilia il 10 luglio 1943, centrale fu di conseguenza la sua collaborazione con Dino Grandi per l'elaborazione di quell'ordine del giorno che nella seduta del Gran Consiglio della notte tra il 24 e il 25 luglio avrebbe portato alla caduta di Mussolini.

Nella seduta del Gran Consiglio dichiarò che con l'odg Grandi si metteva fine all'"intollerabile equivoco delle masse travestite in camicia nera" e a quel "falso mito della" "guerra fascista" che aveva accelerato "il distacco fra il Paese e il Fascismo": perché questa era stata la grave colpa del regime, l'aver spinto il paese alla guerra e il non aver provveduto "alla preparazione spirituale e materiale della Nazione", avendo con la politica del partito, "principalmente negli ultimi otto o dieci anni", mirato soprattutto a "dividere gli Italiani" .

Subito dopo il 25 luglio,  (rifugiatosi nell'ambasciata del Portogallo presso la S. Sede a Roma) fu accusato di alto tradimento al processo di Verona e condannato a morte in contumacia. Alla fine della guerra fu processato assieme a Bottai, Rossoni e Acerbo, unico presente, dall'Alta Corte di giustizia per il suo passato fascista e condannato all'ergastolo nel maggio 1945 (fu amnistiato nel dicembre 1947). Latitante, dopo esser stato nascosto nel Pontificio Collegio ucraino S. Giosafat a Roma, fuggì dall'Italia e tra il maggio 1946 e l'aprile 1948 visse sotto falso nome in America Latina. Nell'aprile 1948 poté rientrare in Portogallo, dove insegnò storia dell'umanesimo all'università di Coimbra e nel 1949 letteratura italiana all'università di Lisbona.

Tornò in Italia definitivamente, dopo un viaggio nell'estate 1948, nel 1951 e si ristabilì a Roma con la famiglia. Impegnato nello studio della recente storia d'Italia (fece tra l'altro parte del Comitato di divulgazione storica dell'Unione monarchica italiana) e nella scrittura delle proprie memorie, mantenne in questi anni uno stretto rapporto di amicizia e di collaborazione con Umberto di Savoia, sia durante la sua permanenza in Portogallo, sia dopo il rientro in Italia: in particolare - come dimostrano le minute dell'ampia corrispondenza conservata nell'archivio personale - gli inviava informazioni e notizie relative alla situazione politica italiana, ai vari partiti e soprattutto al partito monarchico.

DE VECCHI CESARE MARIA

 Casale Monferrato (Al) - 14 novembre 1884

Roma - 23 giugno 1959

 

Nel Gran Consiglio del 25 luglio 1943 intervenne fra i primi, di rincalzo a De Bono, criticando la condotta della guerra, la carenza dell'educazione nazionale della gioventù, la scelta dei capi delle forze armate. Votato l'ordine del giorno Grandi, dopo poche ore era già a colloquio col gen. P. Puntoni, al Quirinale.

Nel gennaio del 1944 il tribunale straordinario speciale di Verona lo condannò a morte in contumacia, come firmatario dell'ordine del giorno Grandi. La sua clandestinità , frutto di una sagace e tenace protezione della Chiesa, si protrasse oltre il 25 aprile 1945. Sempre protetto dai salesiani, nel dicembre 1946 venne trasferito di nascosto a Roma, dove rimase, loro ospite, fino al 15 giugno 1947, quando poté imbarcarsi per l'Argentina con un passaporto del Paraguay. A Buenos Aires fu ancora ospite dell'istituto salesiano "Pio IX", viaggiò per il paese, incontrò Federzoni e Grandi. Fra l'ottobre e il novembre si tenne a Roma il processo contro di lui. L'ammiraglio P. Thaon de Revel, ex ministro del primo governo Mussolini, chiuse le testimonianze a suo favore sostenendo che durante la marcia su Roma si era mostrato "più italiano che fascista". La corte d'assise lo condannò a cinque anni di reclusione, interamente condonati. Il reato di attività squadristica era caduto per amnistia; il reato di insurrezione contro lo Stato fu l'unico riconosciuto, ma all'imputato vennero accordate le attenuanti per aver "combattuto contro i tedeschi". Nell'agosto del 1948 ebbe un primo attacco di emorragia cerebrale, da cui si riprese. Nel 1949 rientrò in Italia, ma il 31 dicembre fu colpito da un secondo attacco. Rimase inchiodato al letto, privo di parola, fino alla morte che lo colse a Roma il 23 giugno 1959.

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SAN LORENZO di Giovanni Pacoli

 San Lorenzo , io lo so perché tanto
di stelle per l'aria tranquilla
arde e cade, perché si gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.


Ritornava una rondine al tetto :
l'uccisero: cadde tra i spini;
ella aveva nel becco un insetto:
la cena dei suoi rondinini.


Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell'ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.


Anche un uomo tornava al suo nido:
l'uccisero: disse: Perdono ;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole in dono.


Ora là, nella casa romita,

lo aspettano, aspettano in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.


E tu, Cielo, dall'alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d'un pianto di stelle lo inondi
quest'atomo opaco del Male! 


Giovanni Pascoli 

 

Link:

https://www.studenti.it/x-agosto-pascoli-testo-parafrasi.html 

 

ADOLFO - ANNIVERSARIO

ADOLFO -  13° ANNIVERSARIO

12 agosto 2007 - 12 agosto 2020


 
- grazie per tutto quello che hai fatto per noi;
- grazie per avermi fatto partecipe del tuo orgoglio per i miei risultati scolastici;
- scusami per l'unica volta che ti ho mancato di rispetto;
Quasi sempre le persone si apprezzano quando non sono più tra noi.
 
Ciao Babbo

martedì 11 agosto 2020

DE STEFANI ALBERTO


Verona - 6 ottobre 1879

Roma 15 gennaio 1969

Nel 1921 entrò nella politica militante, aderendo al movimento fascista e partecipando alle azioni squadriste di Fiume, Genova, Trento. Presentatosi alle elezioni politiche nel collegio elettorale Verona-Vicenza, risultò l'unico eletto in tutto il territorio nazionale di una lista esclusivamente fascista, finendo per assurgere in tempi rapidissimi a figura di primissimo piano del nuovo partito, e assumendone il ruolo di economista ufficiale dopo aver scalzato personalità certo meno forti della sua quali quelle di E. Rocca e A. Lanzillo. Gli articoli economici di sapore neomanchesteriano che proprio in quella veste venne poi scrivendo sul Popolod'Italia rivestirono un ruolo tutt'altro che secondario per l'apertura di una breccia nel muro di diffidenza che il demagogismo "follaiolo" del fascismo della prima ora aveva visto erigere contro di sé da parte del mondo industriale.

L'aspetto più cruciale della sua proposta finiva per essere la rifondazione dell'assetto sociale secondo valori religiosi; e l'istituzione Chiesa, chiamata ad una politica dichiaratamente ierocratica, finiva per essere la destinataria di questo appello. Le conseguenze erano duplici: da un lato, una volta verificata l'impossibilità di scaricare sulla sfera politica tutte le difficoltà di una economia non riformata, le si negava per intero qualunque effettualità, essendo essa rimasta intrappolata in una visione positivista, scientista ed edonista che la rendeva ormai palesemente inetta a rimuovere gli ostacoli che le si paravano dinanzi sul percorso. Dall'altra si riaffermava una visione organicista e neogiobertiana dello Stato e si evocava la rinascita dello Stato cattolico, compiendo al contempo un ulteriore passo verso la definitiva rottura con il regime. In questo senso il voto favorevole all'ordine del giorno Grandi nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943 non fu altro che l'ultimo, conclusivo atto di una crisi cominciata molto addietro.

Dopo la caduta di Mussolini ed il collasso del regime fascista, il D. si rifugiò in un monastero di Roma (dall'inizio del 1944 al luglio del 1947) per sfuggire prima alla esecuzione capitale cui era stato condannato per tradimento dal tribunale di Verona della Repubblica sociale italiana, poi per proteggere ancora la sua contumacia nell'Italia repubblicana davanti alla Alta Corte, che lo assolse. Furono questi gli anni del misticismo e della vena pittorica e letteraria. Scrisse i Racconti del risveglio e in successive stesure, a partire dal 1942, il più importante Fuga dal tempo (Perugia 1948; Bologna 1959), romanzo pieno di reminiscenze orientaleggianti, traboccante immagini bucoliche e consolatorie, libro che ebbe un non indifferente successo di critica e di pubblico.

Il 15 giugno del 1948 venne riabilitato all'insegnamento universitario che lasciò nel novembre dell'anno successivo per raggiunti limiti d'età, pur conservando l'incarico di direttore dell'istituto fino all'anno accademico 1953-54, anno in cui la facoltà gli conferì il titolo di professore emerito. Seppur ritirato dalla politica attiva, fu ancora ascoltato consigliere del nuovo personale politico democristiano che additò ad esempio i risultati da lui raggiunti in campo finanziario nel primo dopoguerra (e su quelle posizioni liberiste egli stesso tornò lasciando completamente alle spalle i trascorsi furori corporativi).

Nel 1953 aderì assieme a Bottai alla costituenda Associazione nazionale combattenti d'Italia che si sciolse nel 1958. Dal 1948 al 1955 collaborò quale notista economico a Il Tempo, dal 1956 al 1959 al Giornale d'Italia, e poi di nuovo a Il Tempo dal 1960 fino alla morte.



DE MARSICO ALFREDO

 Sala Consilina (Salerno) - 29 maggio 1888

Napoli - 8 agosto 1985

All'entrata dell'Italia nella prima guerra mondiale DE MARSICO, che era stato riformato, rinunziò al congedo; destinato come sottotenente ai servizi sedentari, svolse propaganda patriottica con conferenze su Garibaldi e Cavour e manifestò grande ammirazione per D'Annunzio e calda simpatia per Salandra. Su posizioni liberali di destra (fin da giovanissimo aveva fondato ad Avellino un circolo liberale), si presentò senza successo alle elezioni del 1919 come candidato antinittiano. Nella crisi del dopoguerra, turbato dalla prospettiva di una rivoluzione socialista, salutò con favore il sorgere del fascismo quale restauratore dell'Ordine e dell'autorità dello Stato, convinto, come gran parte del mondo politico liberale, che esso rappresentasse un necessario momento di illiberalismo. La sua adesione al fascismo era destinata a crescere, fino alla seconda metà degli anni Trenta, parallelamente all'influenza che anche sulla sua forte personalità esercitava il mito del duce. 

Deputato per la circoscrizione di Napoli nelle elezioni del 6 aprile 1924 (era stato De Nicola ad inserirlo nel cosiddetto "listone", dopo averne parlato con Mussolini),  si fece luce al Consiglio nazionale del partito fascista del 5 agosto con un discorso sulla necessità di elaborare una legislazione fascista: l'indomani fu chiamato a far parte del Direttorio, e da questo nominato, insieme con G. Masi, proprio rappresentante presso la Commissione per lo studio delle riforme legislative. Alla Camera fece parte di varie commissioni: per la riforma del codice penale, di cui fu relatore, e del codice di procedura penale; per la riforma dell'ordinamento giudiziario e della legge elettorale; per l'esame del progetto di legge sul Gran Consiglio. Dal 1939 al 1943 fu membro del Consiglio della corporazione delle professioni e delle arti, in rappresentanza degli avvocati e procuratori, nonché preside della provincia di Avellino. La direzione del Partito nazionale fascista lo aveva anche incaricato di difendere, in famosi processi come quello per l'omicidio di don Giovanni Minzoni, svoltosi a Ferrara nel 1925, i camerati imputati dei delitto. 

ll 5 febbraio 1943  fu nominato ministro di Grazia e Giustizia, nel vano "cambio della guardia" governativo deciso da Mussolini per risollevare il fronte interno. La nomina lo sorprese: "liberale del fascismo", secondo l'espressione di Mussolini , fin dall'inizio era stato inviso ai settori estremisti del regime, precludendosi possibilità di ascesa ad incarichi ministeriali.

Di notevole rilievo fu il ruolo svolto da  nelle vicende che culminarono, il 25 luglio, nel voto di sfiducia a Mussolini da parte del Gran Consiglio del fascismo. Da mesi egli era in contatto col ministro delle Comunicazioni, V. Cini, col quale studiò le possibilità materiali per la prosecuzione della guerra. Dinanzi alle disastrose risultanze delle loro indagini, richiese con energia a Mussolini una compiuta relazione sulla situazione militare. Fu nella seduta del Consiglio dei ministri del 19 giugno 1943 che Cini pronunziò la sua famosa requisitoria a favore della ricerca della pace. Alla secca risposta del duce, sintetizzata nell'alternativa "vincere, o cadere a fianco della Germania", DE MARSICO replicò sostenendo che "se la situazione fosse stata insostenibile, poiché i popoli non hanno diritto di suicidarsi, sarebbe stato doveroso ... scegliere una via onorevole per non immolarsi al sacrificio" . Nelle settimane successive fu, con G. Bottai e L. Federzoni, il più vicino a D. Grandi e rivide, da un punto di vista giuridico, la stesura dell'ordine del giorno che questi andava elaborando, fondato sul "ritorno allo Statuto" e di conseguenza sull'appello al re Vittorio Emanuele III perché riassumesse il comando supremo delle forze armate. Nel suo discorso nella riunione del Gran Consiglio, la notte del 24-25 luglio 1943, ribadì, "interrotto continuamente da Farinacci che gli grida "tu sei un democratico, tu sei un liberale!"" (Grandi, p. 257), la "frattura tra Partito e Nazione; la necessità costituzionale dell'appello al Re; il transito inevitabile da questo appello a un superamento del Regime" (25 luglio 1943. Memorie..., pp. 92 s.). Condannato a morte in contumacia, il 10 gennaio1944, nel processo a Verona della Repubblica sociale italiana contro i diciannove firmatari dell'ordine del giorno Grandi,  subì poi le conseguenze dei procedimenti epurativi avviati dal "Regno del Sud", che lo allontanarono dall'attività forense, per quattro anni e dall'insegnamento universitario per sette.

Reintegrato nei propri diritti, svolse ancora, per molti anni, un'intensa attività didattica e professionale. Fino agli inizi degli anni '80, fu ammirato protagonista dei più noti processi, come quello Ippolito, il segretario generale del Comitato nazionale per l'energia nucleare accusato di peculato, falso ideologico, abuso di ufficio, interesse privato in atti di ufficio (in questo processo, svoltosi a Roma nel 1964, fu tra i difensori degli altri imputati di concorso nei suddetti reati); quello Nigrisoli, il medico imputato di uxoricidio, che egli accusò, come patrono di parte civile, in una memorabile arringa (Bologna 1965); quello Pignatelli, un meridionale imputato di omicidio in una rissa, che egli difese (Bologna 1979). A novantatré anni, nell'ottobre del 1980, fu difensore di Izzo nel processo per omicidio e stupro. Il D. non aveva mancato di reimpegnarsi anche sul piano più strettamente politico. Eletto senatore nel 1953 come indipendente nella lista monarchica di A. Lauro per la circoscrizione di Avellino-Sala Consilina, ma non rieletto nel 1958, continuò a testimoniare la propria fede in una tradizione nazionalistica ormai spenta con conferenze sull'italianità di Trieste, su Elena di Savoia, sul centenario dell'Unità d'Italia. All'inizio degli anni '70 su IlRoma, Il Giornale d'Italia e Il Tempo condusse battaglie contro la politicizzazione della magistratura (minaccia - a suo avviso - della sua indipendenza) e contro il terrorismo, per combattere il quale proclamò, agli inizi degli anni '80, l'esigenza del ritorno ad uno Stato forte. Nei suoi scritti e ricordi, conservò ammirazione per Mussolini e per il fascismo, lamentando il tramonto del senso dello Stato e della tradizione, causato dal "minaccioso affermarsi di miti che hanno a protagonisti la massa" (Eventied artefici, 1965, p. XX).

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http://www.treccani.it/enciclopedia/alfredo-de-marsico_%28Dizionario-Biografico%29/

 

lunedì 10 agosto 2020

DE BONO EMILIO


Cassano d'Adda - 19 marzo 1866

Verona - 11 gennaio 1944

Nacque a Cassano d'Adda, in provincia di Milano, il 19 marzo 1866 da Giovanni ed Emilia Bazzi. La sua famiglia, di origine lombarda, aveva "penato sotto il giogo austriaco" e tutti avevano combattuto nelle guerre d'Indipendenza (E. De Bono, Laguerra..., p. 302).

Fece parte del gruppo che chiese a Mussolini la riunione del Gran Consiglio e nella seduta del 25 luglio 1943 fu il primo a parlare dopo il duce. Il suo discorso era centrato principalmente sulla condizione delle forze armate e sulla difesa dell'operato dell'Alto Comando, e non avanzò alcuna richiesta diretta alla destituzione di Mussolini.

Il suo discorso risentiva dei clima fortemente teso che caratterizzò quella seduta ed egli stesso apparve "confuso" e privo di concentrazione (C. Scorza, La notte..., p. 38). Prese la parola una seconda volta e dette poi il primo voto favorevole all'o.d.g. Grandi, segnando in tal modo il suo destino.

Fino all'arresto, che avvenne il 4 ott. 1943,  godé di larga autonomia e libertà e visitò persino il ministero della Guerra. Fino al gennaio del 1944 rimase a Cassano d'Adda; fu poi trasferito a Verona, ma rimase separato dagli altri prigionieri. La sua difesa si svolse in due tempi: nell'interrogatorio preliminare, avvenuto in dicembre, affermò che non sì era mai occupato di politica e rifiutò decisamente la qualifica di traditore, una seconda volta il vecchio generale, che vestiva l'uniforme e le decorazioni, si presentò davanti al tribunale straordinario speciale con gli altri "colpevoli" di aver firmato l'ordine del giorno Grandi. De Bono ricordò, in quest'occasione, i servizi che aveva prestato al fascismo e giurò fedeltà a Mussolini. Il processo si chiuse con la sentenza di morte per tutti i principali imputati.

Nei mesi che precedettero il suo arresto  aveva pensato di fuggire all'estero, di abbandonare la sua casa e la sua patria; come militare riteneva di dover rimanere a salvaguardare il suo onore, non riuscì mai a capire la situazione politica e in fondo pensava che Mussolini non avrebbe permesso che gli facessero alcun male.

Nella sua ultima lettera alla famiglia riaffermò l'onestà della sua vita e del suo nome; la mattina dell'esecuzione, l'11 gennaio 1944 a Verona, acconsentì, dopo una certa insistenza, a farsi bendare e morì gridando "Viva l'Italia".

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http://www.treccani.it/enciclopedia/emilio-de-bono_%28Dizionario-Biografico%29/