Sala Consilina (Salerno) - 29 maggio 1888
Napoli - 8 agosto 1985
All'entrata dell'Italia nella prima guerra mondiale DE MARSICO, che era stato riformato, rinunziò al congedo; destinato come sottotenente ai servizi sedentari, svolse propaganda patriottica con conferenze su Garibaldi e Cavour e manifestò grande ammirazione per D'Annunzio e calda simpatia per Salandra. Su posizioni liberali di destra (fin da giovanissimo aveva fondato ad Avellino un circolo liberale), si presentò senza successo alle elezioni del 1919 come candidato antinittiano. Nella crisi del dopoguerra, turbato dalla prospettiva di una rivoluzione socialista, salutò con favore il sorgere del fascismo quale restauratore dell'Ordine e dell'autorità dello Stato, convinto, come gran parte del mondo politico liberale, che esso rappresentasse un necessario momento di illiberalismo. La sua adesione al fascismo era destinata a crescere, fino alla seconda metà degli anni Trenta, parallelamente all'influenza che anche sulla sua forte personalità esercitava il mito del duce.
Deputato per la circoscrizione di Napoli nelle elezioni del 6 aprile 1924 (era stato De Nicola ad inserirlo nel cosiddetto "listone", dopo averne parlato con Mussolini), si fece luce al Consiglio nazionale del partito fascista del 5 agosto con un discorso sulla necessità di elaborare una legislazione fascista: l'indomani fu chiamato a far parte del Direttorio, e da questo nominato, insieme con G. Masi, proprio rappresentante presso la Commissione per lo studio delle riforme legislative. Alla Camera fece parte di varie commissioni: per la riforma del codice penale, di cui fu relatore, e del codice di procedura penale; per la riforma dell'ordinamento giudiziario e della legge elettorale; per l'esame del progetto di legge sul Gran Consiglio. Dal 1939 al 1943 fu membro del Consiglio della corporazione delle professioni e delle arti, in rappresentanza degli avvocati e procuratori, nonché preside della provincia di Avellino. La direzione del Partito nazionale fascista lo aveva anche incaricato di difendere, in famosi processi come quello per l'omicidio di don Giovanni Minzoni, svoltosi a Ferrara nel 1925, i camerati imputati dei delitto.
ll 5 febbraio 1943 fu nominato ministro di Grazia e Giustizia, nel vano "cambio della guardia" governativo deciso da Mussolini per risollevare il fronte interno. La nomina lo sorprese: "liberale del fascismo", secondo l'espressione di Mussolini , fin dall'inizio era stato inviso ai settori estremisti del regime, precludendosi possibilità di ascesa ad incarichi ministeriali.
Di notevole rilievo fu il ruolo svolto da nelle vicende che culminarono, il 25 luglio, nel voto di sfiducia a Mussolini da parte del Gran Consiglio del fascismo. Da mesi egli era in contatto col ministro delle Comunicazioni, V. Cini, col quale studiò le possibilità materiali per la prosecuzione della guerra. Dinanzi alle disastrose risultanze delle loro indagini, richiese con energia a Mussolini una compiuta relazione sulla situazione militare. Fu nella seduta del Consiglio dei ministri del 19 giugno 1943 che Cini pronunziò la sua famosa requisitoria a favore della ricerca della pace. Alla secca risposta del duce, sintetizzata nell'alternativa "vincere, o cadere a fianco della Germania", DE MARSICO replicò sostenendo che "se la situazione fosse stata insostenibile, poiché i popoli non hanno diritto di suicidarsi, sarebbe stato doveroso ... scegliere una via onorevole per non immolarsi al sacrificio" . Nelle settimane successive fu, con G. Bottai e L. Federzoni, il più vicino a D. Grandi e rivide, da un punto di vista giuridico, la stesura dell'ordine del giorno che questi andava elaborando, fondato sul "ritorno allo Statuto" e di conseguenza sull'appello al re Vittorio Emanuele III perché riassumesse il comando supremo delle forze armate. Nel suo discorso nella riunione del Gran Consiglio, la notte del 24-25 luglio 1943, ribadì, "interrotto continuamente da Farinacci che gli grida "tu sei un democratico, tu sei un liberale!"" (Grandi, p. 257), la "frattura tra Partito e Nazione; la necessità costituzionale dell'appello al Re; il transito inevitabile da questo appello a un superamento del Regime" (25 luglio 1943. Memorie..., pp. 92 s.). Condannato a morte in contumacia, il 10 gennaio1944, nel processo a Verona della Repubblica sociale italiana contro i diciannove firmatari dell'ordine del giorno Grandi, subì poi le conseguenze dei procedimenti epurativi avviati dal "Regno del Sud", che lo allontanarono dall'attività forense, per quattro anni e dall'insegnamento universitario per sette.
Reintegrato nei propri diritti, svolse ancora, per molti anni, un'intensa attività didattica e professionale. Fino agli inizi degli anni '80, fu ammirato protagonista dei più noti processi, come quello Ippolito, il segretario generale del Comitato nazionale per l'energia nucleare accusato di peculato, falso ideologico, abuso di ufficio, interesse privato in atti di ufficio (in questo processo, svoltosi a Roma nel 1964, fu tra i difensori degli altri imputati di concorso nei suddetti reati); quello Nigrisoli, il medico imputato di uxoricidio, che egli accusò, come patrono di parte civile, in una memorabile arringa (Bologna 1965); quello Pignatelli, un meridionale imputato di omicidio in una rissa, che egli difese (Bologna 1979). A novantatré anni, nell'ottobre del 1980, fu difensore di Izzo nel processo per omicidio e stupro. Il D. non aveva mancato di reimpegnarsi anche sul piano più strettamente politico. Eletto senatore nel 1953 come indipendente nella lista monarchica di A. Lauro per la circoscrizione di Avellino-Sala Consilina, ma non rieletto nel 1958, continuò a testimoniare la propria fede in una tradizione nazionalistica ormai spenta con conferenze sull'italianità di Trieste, su Elena di Savoia, sul centenario dell'Unità d'Italia. All'inizio degli anni '70 su IlRoma, Il Giornale d'Italia e Il Tempo condusse battaglie contro la politicizzazione della magistratura (minaccia - a suo avviso - della sua indipendenza) e contro il terrorismo, per combattere il quale proclamò, agli inizi degli anni '80, l'esigenza del ritorno ad uno Stato forte. Nei suoi scritti e ricordi, conservò ammirazione per Mussolini e per il fascismo, lamentando il tramonto del senso dello Stato e della tradizione, causato dal "minaccioso affermarsi di miti che hanno a protagonisti la massa" (Eventied artefici, 1965, p. XX).
Link:
http://www.treccani.it/enciclopedia/alfredo-de-marsico_%28Dizionario-Biografico%29/
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