domenica 31 dicembre 2017

GARGIOLAI (o Gargiolari)

ANTICHI MESTIERI

Gargiolai  (o  Gargiolari)  

        Garžulær, (sing. e pl. inv. -itz. gargiolai o gargiolari; urbano šgažulær-). Pure i gargiolari operavano in gruppetti di poche unità e si distinguevano dai canapini per le diverse funzioni che questi avevano, nei diversi trattamenti della canapa e nel contesto del loro lavoro. Il nome gargiolaio viene, appunto, da gargiolo; ottenuto dalla cernita della canapa più fine. Loro compito era quello di trattare, pettinare il gargiolo per poi essere filato e tessuto. Da questa lavorazione si ottenevano tre scelte:  a) – ramndî, sing. ramndæl (intr.). Era la parte del tiglio che ricopriva il fusto della pianta. Dopo la starpunæ (itz. starponata, a Pieve di Cento detta  tâj [taglio]) in tre pezzi, poi pettinata ne uscivano i ramndî che erano la parte più fine della concia, i quali, filati, davano il filo. A volte si faceva una lavorazione ancora più fine e si otteneva al muræl (intr.: itz. darebbe morale o morello ma nell’ambiente, in questa accezione, rimarrebbero termini senza senso in quanto apparterrebbero ad altri contesti). Con il muræl  si otteneva il filo più sottile di tutti gli altri, ottenuti con le scelte successive. Con la tela da questo ottenuta si facevano le doti da sposa per le ragazze della famiglia, ma non sempre; si usava parimenti anche tela fatta con filo di ramdæl senza la distinzione fra bdæl e muræl. Con questi due tipi di tela si facevano anche biancheria intima, asciugamani, lenzuola e quant’altro si potesse ottenere di fino; b) – manæle (pl. manæl, itz. mannella): era la seconda scelta (parte migliore dello scarto del gargiolo non usato per i ramndî), la cui filatura e tessitura dava la  tàile ed manæle (tela di manella), con la quale si poteva fare praticamente di tutto ma era particolarmente usata per fare pantaloni, detti ed rigadéñ (itz. di rigatino); verosimilmente perché questi, qualche volta fino alla seconda guerra mondiale, venivano tinti in toto o con righe colorate in blu o marrone. Questo fatto, molto probabilmente, è un’eredità fin dal primo ’600, quando da quelle parti e non solo, si portavano le brache a righe; la maschera del Narciso da Mal Albergo ne è buon testimone. I calzoni dei vecchi, a volte, erano tinti in tinta unica, molto tempo prima dell’avvento dei  jeans americani; c) – tûz, sing. tôz, (intr.: itz. darebbe tozzi; essendo parola monosemica non ha senso in altri contesti), terza scelta, la più rozza: era il primo scarto ottenuto dalla lavorazione che, filato, dava la tàile ed tôz (lett. tela di tozzo), la quale serviva per fare sacchi, teloni da carro e altro, nonché lenzuola per i ragazzi, per i bambini (chi scrive compreso). Quando le lenzuola erano nuove e i ragazzi la mattina si alzavano dal letto, potevano avere la pelle rossa e non immune da qualche piccolo graffio.
        A proprosito di gargiolari e canapini è quanto meno opportuno chiarire il significato dei due termini che (capita spesso) vengono fraintesi e confusi l’uno con altro; nel contempo serve come esempio di lettura per un qualsiavoglia elemento delle culture materiali. Questa distinzione si concretizza nel contesto dell’oggetto di cui si parla. Poiché in quel mondo non esiste nulla in sé, e tutto quanto lo compone (attrezzi, azioni, psicologie, comportamenti, superstizioni e quant’altro) trova la propria ragione di essere in un contesto, appunto, si approfitta per dire:  a) – i  gargiolari (detti anche cuñzéñ [itz. concini, conciatori?]) conciavano il gargiolo secondo la tecnica necessaria per predisporlo ad ulteriori lavorazioni per uso domestico; quindi, il fine di questa attività rientrava nel contesto dell’economia domestica; b) – i canapini lavoravano la canapa secondo una tecnica richiesta per l’ammasso; quindi, il fine di questo lavoro era il mercato. Cosa che, verosimilmente, è stata da sempre. Questo chiarimento per dire che, purtroppo, a volte può capitare, che senza inquadrare l’argomento nel contesto che gli è proprio, possa comparire altra cosa che potrebbe essere definita o indefinita; in quest’ultimo caso potrebbe anche essere qualsiasi cosa. Questo stesso discorso vale pure per i  contadini, comunemente intesi.

MASSARENTI GIUSEPPE


MASSARENTI Giuseppe

(Molinella (Bologna) 8.4.1867 – Molinella (Bologna) 31.3.1950)

Nato nel 1867 a Molinella da Petronio e Celeste Andrini. Terzogenito di tre fratelli e una sorella, proviene da una famiglia borghese che ha nel nonno, anch’esso Giuseppe, un rinomato gargiolaio (1) e negoziante di prodotti in canapa. Impegnato in una importante attività commerciale è anche il padre, che è un fervente mazziniano, come di idee risorgimentali è anche la madre. 
Rimasto orfano all’età di quattro anni, viene adottato dallo zio paterno Vincenzo che, artigiano pilarino e poi oste, lo avvia agli studi. Si diploma quindi in ragioneria e nel 1893 si laurea in farmacologia presso l’Università di Bologna. 
Nella metà degli anni '80 inizia il suo impegno verso il mondo contadino animato da idee radicali e subisce anche le prime denunce e condanne. Passato al socialismo-rivoluzionario, nel 1890 partecipa al v Congresso del Psrr e nel 1892 è a Genova al congresso di fondazione del Psi, in rappresentanza della Lega democratica di Molinella. Capo ed esponente emblematico per decenni delle lotte contadine di Molinella, nel corso dello stesso anno fonda una Lega di resistenza, nel 1895 viene eletto nel consiglio comunale, e l’anno dopo dà vita ad una cooperativa di consumo. Le vaste lotte bracciantili e la conseguente repressione del 1898 lo vedono più volte denunciato ed arrestato. Con l’elezione di una giunta socialista nel 1900, giunge a compimento quella che è forse la sua maggiore idea-forza ideologica, imperniata sul triangolo organizzazione sindacale-cooperazione-comune. La ripresa delle lotte agrarie di inizio secolo ed una nuova condanna in contumacia a 14 mesi nel 1901, lo costringono l’anno dopo a riparare in Svizzera per sfuggire ad un mandato di cattura. A Lugano, dove si stabilisce, fa il portabagagli ed il farmacista. Condonatagli la pena, nel dicembre del 1905 ritorna definitivamente a Molinella, che lo elegge sindaco nel novembre successivo. Nel 1908 viene eletto anche nel consiglio provinciale, nel quale rimane poi sino al 1913 quando viene candidato alla Camera ma riesce sconfitto a Budrio durante una tornata elettorale suppletiva. Dopo le vaste lotte bracciantili del 1914, che portano a furiosi scontri fra scioperanti e crumiri, con diversi morti e più di duecento arrestati, e che provocano anche lo scioglimento dell’amministrazione comunale, deve riparare a San Marino. Sottoposto ad una feroce campagna di stampa accusatoria (fra cui i due noti pamphlet “massarentofobi” del 1914 e 1916 di Mario Missiroli), risponde dall’esilio con lettere ed articoli sull’Avanti!, sul Giornale del mattino, sulla Squilla e con il saggio La Repubblica degli accattoni. Chiusisi alfine i procedimenti penali, dai quali riesce assolto, nel 1919 può rientrare a Molinella, che l’anno seguente lo rielegge nel consiglio comunale e quindi nuovamente sindaco. La “Molinella rossa”, serrata nel suo isolamento comunalistico, non può tuttavia reggere l’urto dell’assalto squadristico. Nel 1921, sfuggito ad un attentato fascista, si trasferisce a Roma dove poi rimane fino al 1926. Passato nel frattempo nelle fila del Psu (ottobre 1922), dopo le leggi eccezionali viene assegnato al confino per cinque anni, che sconta a Lampedusa, Ustica, Ponza e ad Agropoli. Liberato nel novembre del 1931 ma impossibilitato a ritornare a Molinella, per l’interdizione posta nei suoi confronti da parte dei fascisti, vive per alcuni anni in profonda miseria (per un anno dorme anche sotto i portici del Vaticano), fino a che nel 1937 viene richiuso dalla polizia in un manicomio a Roma. Qui rimane per altri sette anni sino al dicembre del 1944, quando, sei mesi dopo la liberazione della capitale, è alfine liberato. L’adesione al Psli, dopo la scissione di Palazzo Barberini (gennaio 1947), gli compromette una sua candidatura unitaria al Senato da parte dei partiti di “sinistra” durante le elezioni politiche dell’aprile 1948; candidato solamente come indipendente socialista nel collegio di Portomaggiore-Molinella, non riesce eletto. Ritornato a Molinella nello stesso aprile 1948, vi muore due anni dopo. Ai funerali dell’“apostolo della cooperazione” presenzia e rende omaggio anche il presidente della repubblica, Luigi Einaudi.



(1)
Gargiolai  (o  Gargiolari)  

        Garžulær, (sing. e pl. inv. -itz. gargiolai o gargiolari; urbano šgažulær-). Pure i gargiolari ope-ravano in gruppetti di poche unità e si distinguevano dai canapini per le diverse funzioni che questi avevano, nei diversi trattamenti della canapa e nel contesto del loro lavoro. Il nome gargiolaio viene, appunto, da gargiolo; ottenuto dalla cernita della canapa più fine. Loro compito era quello di trattare, pettinare il gargiolo per poi essere filato e tessuto. Da questa lavorazione si ottenevano tre scelte:  a) – ramndî, sing. ramndæl (intr.). Era la parte del tiglio che ricopriva il fusto della pianta. Dopo la starpunæ (itz. starponata, a Pieve di Cento detta  tâj [taglio]) in tre pezzi, poi pettinata ne uscivano i ramndî che erano la parte più fine della concia, i quali, filati, davano il filo. A volte si faceva una lavorazione ancora più fine e si otteneva al muræl (intr.: itz. darebbe morale o morello ma nell’ambiente, in questa accezione, rimarrebbero termini senza senso in quanto apparterrebbero ad altri contesti). Con il muræl  si otteneva il filo più sottile di tutti gli altri, ottenuti con le scelte successive. Con la tela da questo ottenuta si facevano le doti da sposa per le ragazze della famiglia, ma non sempre; si usava parimenti anche tela fatta con filo di ramdæl senza la distinzione fra bdæl e muræl. Con questi due tipi di tela si facevano anche biancheria intima, asciugamani, lenzuola e quant’altro si potesse ottenere di fino; b) – manæle (pl. manæl, itz. mannella): era la seconda scelta (parte migliore dello scarto del gargiolo non usato per i ramndî), la cui filatura e tessitura dava la  tàile ed manæle (tela di manella), con la quale si poteva fare praticamente di tutto ma era particolarmente usata per fare pantaloni, detti ed rigadéñ (itz. di rigatino); verosimilmente perché questi, qualche volta fino alla seconda guerra mondiale, venivano tinti in toto o con righe colorate in blu o marrone. Questo fatto, molto probabilmente, è un’eredità fin dal primo ’600, quando da quelle parti e non solo, si portavano le brache a righe; la maschera del Narciso da Mal Albergo ne è buon testimone. I calzoni dei vecchi, a volte, erano tinti in tinta unica, molto tempo prima dell’avvento dei  jeans americani; c) – tûz, sing. tôz, (intr.: itz. darebbe tozzi; essendo parola monosemica non ha senso in altri contesti), terza scelta, la più rozza: era il primo scarto ottenuto dalla lavorazione che, filato, dava la tàile ed tôz (lett. tela di tozzo), la quale serviva per fare sacchi, teloni da carro e altro, nonché lenzuola per i ragazzi, per i bambini (chi scrive compreso). Quando le lenzuola erano nuove e i ragazzi la mattina si alzavano dal letto, potevano avere la pelle rossa e non immune da qualche piccolo graffio.
        A proprosito di gargiolari e canapini è quanto meno opportuno chiarire il significato dei due termini che (capita spesso) vengono fraintesi e confusi l’uno con altro; nel contempo serve come esempio di lettura per un qualsiavoglia elemento delle culture materiali. Questa distinzione si con-cretizza nel contesto dell’oggetto di cui si parla. Poiché in quel mondo non esiste nulla in sé, e tutto quanto lo compone (attrezzi, azioni, psicologie, comportamenti, superstizioni e quant’altro) trova la propria ragione di essere in un contesto, appunto, si approfitta per dire:  a) – i  gargiolari (detti anche cuññ [itz. concini, conciatori?]) conciavano il gargiolo secondo la tecnica necessaria per predisporlo ad ulteriori lavorazioni per uso domestico; quindi, il fine di questa attività rientrava nel contesto dell’economia domestica; b) – i canapini lavoravano la canapa secondo una tecnica richie-sta per l’ammasso; quindi, il fine di questo lavoro era il mercato. Cosa che, verosimilmente, è stata da sempre. Questo chiarimento per dire che, purtroppo, a volte può capitare, che senza inquadrare l’argomento nel contesto che gli è proprio, possa comparire altra cosa che potrebbe essere definita o indefinita; in quest’ultimo caso potrebbe anche essere qualsiasi cosa. Questo stesso discorso vale pure per i  contadini, comunemente intesi.

AGRITURISMO TENUTA PRINCIPE

AGRITURISMO TENUTA PRINCIPE
di Daniela Trentini

Via Romagne, 23 - Marmorta di Molinella (Bo)










Risotto al radicchio














Giuseppe Massarenti


























martedì 19 dicembre 2017

AUGURI DI BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO

AUGURI - FESTIVITA' 2017 - 2018

A u g u r i

NonnoKucco augura a tutti i lettori di questo blog

BUON NATALE e FELICE ANNO NUOVO


Merry Christmas and Happy New Year

Wesołych Świąt i Szczęśliwego Nowego Roku 

En frehlicher Grischtdaag un en hallich Nei Yaahr

Joyeux Noël et bonne année

Prettige kerstdagen en een Gelukkig Nieuwjaar!
Zalig kerstfeest en Gelukkig Nieuwjaar



明けましておめでとうございます
旧年中大変お世話になりました
本年もよろしくお願いいたします

С Рождеством Христовым
С наступающим Новым Годом


¡Feliz Navidad y próspero año nuevo!  

Vesel božič in srečno novo leto


Nollaig Shona agus Athbhliain Shona 

З Різдвом і Новим Роком

Feliĉan Kristnaskon kaj Bonan Novjaron 

lunedì 11 dicembre 2017

SAN BARTOLOMEO IN BOSCO - SUOR LUIGINA SILVERA





Il 24 ottobre 1917, con la disfatta di Caporetto, gli Austriaci invasero buona parte del Veneto. Questa terra diventò perciò teatro di numerosi scontri che costrinsero la popolazione a lasciare le loro terre per riparare in luoghi più sicuri.
In un baleno più di cinquanta comunità, appartenenti all'istituto delle Sante Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, vennero spazzate  dalla raffica nemica.
Le Suoeriore e le suore chiesero consiglio alla madre generale, allora suor Angela Ghezzi, la quale rispose: " Seguite i vostri poveri, i vostri bambini, i vostri malati".
Fu così che numerose suore si unirono alla folla di profughi per raggiungere la Toscana, l'Emilia-Romagna e tutta quella parte dell'Italia che meno risentiva degli eventi bellici.
Le stazioni delle città colpite dalla guerra vennero prese d'assalto. I treni non erano sufficienti per evacuare tanta popolazione, perciò si usarono anche i carri merci. Così si legge nella storia dell'Istituto scritta da suor Antonietta Prevedello (Vol. 3° pagina 312): " da Venezia a Ferrara quasi trena ore di treno. La tradotta aveva il compito di procedere il più lentamente possibile, di fermarsi ad ogni tratto, di sostare a lungo su binari morti. Nessuno può dire i disagi di quel viaggio; la tradotta barcollante pareva una nave abbandonata a sè: mancavano l'aria, il cibo, il soccorso"……
A Ferrara
Un gruppo di sfollati venne ospitato in Seminario e presso l'Istituto delle suore Orsoline. Poiché i posti non erano sufficienti per tutti, afferma Don Lorenzo Paparelli nel 1° libro delle sue memorie:
 " una piccola falange di suore fu caritatevolmente accolta dall'Arciprete di Gaibana nella propria canonica. Ma questa sistemazione precaria non poté durare a lungo.
Il Conte Gulinelli, che possedeva una villa disabitata a poca distanza dal paese, offrì ospitalità alle suore profughe che, grate a Dio per tanta generosità, soffrivano per lo smembramento delle loro comunità e anche per l'impossibilità di prodigarsi nelle opere di carità consuete. 
Nel 1917 reggeva la parrocchia di San Bartolomeo in Bosco, Don Gaetano Calura il quale viveva presso la famiglia dei suoi genitori e un fratello. Egli pensò di inviare una parte di quelle religiose nella canonica vuota. Così avvenne. Il 21 novembre 1917, la popolazione accorse favorevolmente le suore; si diede premura di offrire non solo generi alimentari, ma anche le suppellettili più urgenti e necessarie per alleviare il disagio e lo sconforto dell'esilio".
Dalle memorie orali di suor Luigina Silvera, che è vissuta nella comunità di San Bartolomeo in Bosco per quasi sessant'anni, si sa che la canonica rispecchiava le case più povere del paese, perciò mancava di luce, di riscaldamento, di soffitto; era abitata da numerosi e grossi topi…… Le suore non avevano nulla appena le vesti che indossavano.
Ma esse non si persero d'animo, iniziarono subito la loro attività apostolica: scuola materna per i bambini e scuola per il lavoro per le ragazze. Le prime giovani che frequentarono questa scuola furono: Linda Vaccari, Lucia Gottardi, Aniceta Minarello, Maria Cavicchi, ecc....... Vista tanta buona volontà da parte delle suore e del paese, si formò comitato, il cui animatore fu Don Gaetano Calura, per studiare la possibilità di rendere più sicura quest'opera iniziata per volontà di una misteriosa Provvidenza Divina che pensa i suoi figli anche nelle notti più oscure. Dopo qualche tempo la scuola materna si trasferì nella casa di proprietà del signor Tommaso Volta, situata all'angolo tra via Sgarbata e la via Masi. Solo nel 1925, superate non poche difficoltà, la scuola passò definitivamente nell'attuale abitazione dando così stabilità ad un'opera che continua ancora oggi, da oltre settant'anni, con la  stessa dedizione al servizio del paese per il bene del prossimo.
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 Testo e foto tratte da:


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Indicatore generale per l'Archidiocesi di Ferrara 1943:

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Cimitero di San Bartolomeo in Bosco:


SUOR LUIGINA MARIA SILVERA
20/9/1886
2/9/1978


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Ricordi di Nonno Kucco:

Un giorno la Superiora mi disse:
" Tu non sei grande, sei alto; Napoleone era grande, anche se basso di statura"

venerdì 17 novembre 2017

COLORI DELL'AUTUNNO














VILLA NAVARRA - GUALDO



Foto tratte da internet




Foto Nonno Kucco

Foto Nonno Kucco

Foto Nonno Kucco
«a torre d«La torre di Gualdo era tra i beni d
otali di Parisina Malatesta, andata sposa al marchese Nicolò III d’Este nel 1418. L’anno dopo la tragica morte di Parisina insieme al figliastro Ugo (1425), la torre passò in dote a Margherita, figlia dello stesso Nicolò, che andava sposa a Galeotto Roberto Malatesta, cugino di Parisina. La torre è probabilmente da individuare in quella incorporata nella villa già della famiglia Navarra, nei pressi del paese lungo la strada provinciale».i Gualdo era tra i beni dotali di Parisina Malatesta, andata sposa al marchese Nicolò III d’Este nel 1418. L’anno dopo la tragica morte di Parisina insieme al figliastro Ugo (1425), la torre pin dote a Margherita, figlia dello stesso Nicolò, che andava sposa a Galeotto Roberto Malatesta, cugino di Parisina. La torre probabilmente da individuare in quella incorporata nella villa già della famiglia Navarra, nei pressi dpaese lungo la strada provinciale».
://www.castelloestense.it/delizie/ita/paesaggio/torre_parisina.h

mercoledì 15 novembre 2017

FERRARA - IL PODESTA' EBREO - LA STORIA DI RENZO RAVENNA





Quanto segue è stato pubblicato sulla rivista FERRARA - VOCI DI UNA CITTA' - edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara nel dicembre 2006.
Lessi con molto interesse il libro di Ilaria Pavan e penso sia utile leggere l'ntervista che segue.

"Un uomo onesto, capace, dotato di uno straordinario rispetto per la cosa pubblica. E che non ha mai nascosto di provare un amore quasi morboso per Ferrara". 

Ilaria Pavan, ricercatrice storica alla Scuola Normale di Pisa, tratteggia così, in estrema sintesi, una figura straordinaria di ferrarese, quella di Renzo Ravenna, su cui si incentra il libro Il Podestà ebreo, edito da Laterza.

Nel suo giudizio istintivo sembra prescindere dal contesto storico e politico: gli anni Trenta e Quaranta, l'ebraismo di Ravenna, le persecuzioni razziali, la guerra, la Shoah.
In realtà è impossibile slegare la vicenda di Ravenna, e l'analisi della città, dallo scenario e dagli avvenimenti, umani e sociali, che in quegli anni sono stati emblematici non solo per Ferrara. Semmai dall'inizio del lavoro mi ha preso un assillo, che mi ha accompagnato poi durante la stesura del libro: il timore di aver stabilito, quasi inevitabilmente, un'empatia positiva con il personaggio, sino al punto di rischiarne l'apologia.

Non è accaduto, il libro rappresenta un mirabile esempio di equilibrio. 
Merito anche della collaborazione preziosa di Paolo Ravenna. Non avevo mai sentito parlare del podestà ebreo di Ferrara, non sapevo nulla del suo legame con Italo Balbo. Stavo lavorando alla mia tesi, un giorno ricevetti la telefonata dell'avvocato, che mi propose di ricostruire la vicenda di suo padre. Mi ha subito conquistato, innanzitutto con la storia di quest'uomo tipico dell'Italia del suo tempo, quindi con la ricchezza dei materiali dell'archivio, infine per non avermi mai nascosto una sola carta, per la sorridente ossessione di andare a stanare in soffitta anche il più polveroso dei fascicoli. Tanti consigli sensibili, mai una censura. Mi sono sempre sentita libera di scrivere quello che vedevo e pensavo.

Torniamo da capo: chi era Renzo Ravenna? 
Mi piace definirlo prima un italiano che un ebreo. Perchè faceva parte di quella generazione d'italiani che ha creduto onestamente nel fascismo, approdandovi spesso da sponde opposte. Anche Renzo Ravenna frequentava l'ambiente dei sindacalisti rivoluzionari e come tanti criticava il sistema giolittiano. Poi, durante la prima guerra mondiale, non partì come volontario: ne fortificò l'animo facendo emergere ancor più le sue doti di rigore morale e capacità di dialogo. Diversamente da Italo Balbo, non era uno sbandato: si laureò, si sposò, ebbe dei figli. La sua adesione al fascismo fu consapevole, non strumentale.

Ma quegli anni furono segnati, anche a Ferrara, da episodi aspri, terribili. Ravenna non se ne accorge? 
Decise di assumere le redini del partito in città durante la crisi Matteotti e dopo l'assassinio di don Giovanni Minzoni. Non può certo passare per un ingenuo né mai ha mostrato di voler cancellare le proprie responsabilità politiche. Anche se nelle vicende più tragiche, non ebbe sicuramente parte attiva. Nel suo impegno non c'è comunque contraddizione, perchè nell'attività di podestà mise la cura di un amministratore rigoroso e di un leale servitore delle istituzioni.

Ha citato Balbo, con cui Ravenna ha condiviso un'amicizia durata una vita. Un rapporto che a tratti è stato addirittura mitizzato, a Ferrara. Molti, semplificando, hanno persino parlato di un filo ebraismo del gerarca. 
Non corriamo. L'amicizia c'è stata ed è stata saldissima, anche se durante le mie ricerche non ho trovato uno straccio di carta, una lettera che ne testimoniasse l'intensità. Al di là di telegrammi, di bigliettini d'auguri, di piccole pezze d'appoggio era tutto, come dice lei, affidato al racconto o persino al mito; la realtà è comunque di due persone cresciute assieme, che frequentavano la stessa palestra e abitavano a pochi passi di distanza, con compagni di gioco comuni tra cui molti di religione ebraica. Due persone che negli anni continuano a vedersi e sentirsi, a collaborare e condividere tanti progetti per Ferrara. Tornando peraltro all'assenza di documentazione, vedo poco nella personalità di Balbo una sua attitudine a mettersi a scrivere lunghe, enfatiche lettere agli amici.

E l'amicizia con Ravenna come prova di un atteggiamento più morbido nei confronti del'antisemitismo? 
Balbo non si è mai esposto pubblicamente e in modo concreto a favore degli ebrei. Forse non ha condiviso la scelta delle persecuzioni razziali, sicuramente nei confronti di Ravenna è stato un amico leale e in varie circostanze può aver anche portato il proprio aiuto, ma di qui a mettere in gioco la propria carriera e il ruolo politico ce ne corre. Le sue responsabilità, per ciò che avvenne in quegli anni a Ferrara e in Italia, non possono essere alleggerite.

Il suo libro è sapientemente suddiviso in due parti: la prima focalizzata sulla figura di Ravenna, la seconda incentrata sulla città. 
Se l'avventura umana del podestà ebreo era sicuramente coinvolgente, lo studio di ciò che Ferrara rappresentava in quegli anni è stato lo spunto forse più intrigante. La storiografia pur sterminata sul fascismo, ha grandi lacune: mancava uno studio sull'operare concreto delle amministrazioni locali fasciste, e in questo senso la città che era stata culla del fascismo agrario rappresentava un caso rilevante, un possibile paradigma. Quale in effetti emerge alla fine del volume.

Per quali motivi?
Essenzialmente due. L'azione condotta nella riqualificazione urbanistica e la politica culturale. In entrambi i casi, non dobbiamo perdere di vista gli obiettivi politici: nel primo, arginare la disoccupazione dilagante dei braccianti agricoli che rischiava di deflagrare in scontri cruenti. Di qui l'idea di varare una serie di opere pubbliche che, nel contesto urbanistico della città, hanno assunto una grande valenza. Penso al cosiddetto piano Contini, la riqualificazione di alcuni quartieri centrali tuttora di grande pregio.
Sul secondo versante, il discorso sarebbe amplissimo: la politica culturale, per il fascismo, era innanzitutto funzionale alla creazione del consenso. In città c'era un'esigenza in più, quella di ripulire l'immagine dello squadrismo ferrarese facendo leva sulle classi medie. Di qui il recupero della Corte Estense e il parallelismo, ben calcolato, tra il Rinascimento e il nuovo regime.


Che ruolo ebbero Ravenna e Balbo in questa operazione? 
Decisivo. Assieme a Nello Quilici, direttore del Corriere Padano, elaborarono un modello basato sulla riproposizione di quel mito autoctono, incentrato sugli Estensi e la loro grandezza illuminata. Tra le grandi mostre e la riproposta del Palio, l'operazione ebbe un'indubbia valenza e rappresentò una sorta di autarchia alla ferrarese, distinta e distante dall'agiografia della romanità su cui si basava invece il fascismo. Altro particolare importante, a pilotare questa operazione fu essenzialmente il Comune, il fascio ferrarese non ne era in pratica coinvolto.

Pensa che questo contribuì a urtare qualche suscettibilità?
Per Ravenna non credo, di Quilici non so. Per Balbo ritengo che Mussolini gli riconoscesse in fondo la capacità di aver costruito questo mito autonomo, anche se forse il clamore delle iniziative un po' lo turbasse.

Restiamo al podestà ebreo. Arrivano le leggi razziali, poi la guerra e, nel '40, il brusco abbandono dela carica. Preludio agli orrori degli anni successivi. Come visse questa fase?
Come molti ebrei figli dell'emancipazione liberale, anche Renzo Ravenna visse la propria doppia identità, se così posso definirla, senza eccessive contraddizioni. Anche quando la situazione, dal '38, si fece oggettivamente più complicata, si sentiva relativamente sicuro. Lasciò la carica nel '40 e, pur di fatto costrettovi, dichiarò esplicitamente di ritenersi ancora al servizio, a disposizione dello Stato. E fino al '43, come molti altri ebrei italiani, sembrò addirittura non volersi rendere conto di quello che accadeva. Aveva rescisso il legame con il Pnf, di fatto non con le istituzioni e con la propria città. Poi la situazione precipitò, e dovette subire assieme alla famiglia la prova terribile e dolorosa della Shoah.

Il Ravenna che torna a Ferrara dopo la liberazione dei campi, chi è? 
Un uomo ancora giovane ma stanco, profondamente provato. Ha capito perfettamente le responsabilità che ha avuto, e decide di non misurarsi più con la vita pubblica pur essendo un professionista stimato e benvoluto. Non farà mai ammenda, neppure in privato, delle vicende che lo hanno visto protagonista, ma è evidente che in grande riserbo patisce un enorme travaglio interiore. Muore a sessantotto anni, quando il cuore cede all'improvviso.

Nel libro questi eventi, al pari di molti altri, sono raccontati con il piglio della narratrice più che con il taglio della storica. 
Che bel complimento! Non mi ritengo abile nella scrittura e in genere i miei testi sono fitti di note e rimandi. È un problema generale, e so di farmi qualche nemico dicendolo: spesso gli storici fanno a gara a scrivere in maniera oscura e arzigogolata, in modo che il lettore capisca poco.

Anche per questo il libro su Renzo Ravenna appare mirabile. 
Non certo per le mie doti letterarie. Ritengo che sia frutto soprattutto dell'interesse suscitato dalla vicenda umana e politica del podestà ebreo, dell'eccezionalità del contesto sociale della città, oltre che dei contributi alla stesura del testo. Fondamentale anche il ruolo di Alberto Cavaglion, dell'Istituto per la Storia della Resistenza di Torino, che oltre a scrivere una illuminante postfazione mi ha dato consigli sia stilistici che di sostanza. Senza il suo apporto, e quello di Paolo Ravenna, forse i miei tre anni di lavoro non avrebbero raggiunto lo stesso risultato.

E la tesi che stava scrivendo al momento della fatidica telefonata dell'avvocato Ravenna? 
L'ho completata, l'ho pubblicata, ma non ha avuto sinora alcuna recensione.


Renzo con i suoi artiglieri da montagna a Pin delle Fugazze nel giugno 1915



Il Podestà Ravenna, al centro, con Italo Balbo e Vittorio Emanuele III, (nei sedili posteriori) a Ferrara nel 1928 per l'inaugurazione della Torre della Vittoria

lunedì 13 novembre 2017

PRIMA DELL'ALBA - Paolo Malaguti - Romanzo storico




Nel centenario della "disfatta" di Caporetto, Paolo Malaguti compone un impeccabile romanzo che getta una luce nuova sulle scelte, di memoria e celebrazione, di oblio e censura, fatte dall'Italia "vittoriosa" attorno al mito della grande guerra e al destino dei troppi caduti di quella inutile strage che, a parere di molti, segnò la vera fine della civiltà europea.

"Avanti e morire, avanti e morire.
Non c'era più nemmeno una parvenza di ardore,
negli uomini intorno a lui. Non era difficile
vedere qualcuno andare all'attacco
con una espressione strana in viso,
che faceva venire la pelle d'oca.
Non più paura, non più ardore,
per chi mai ne avesse avuto.
Arrivava l'ordine , e si andava".



Prima dell'alba, pubblicato da Neri Pozza, è il nuovo libro dello scrittore Paolo Malaguti, finalista in cinquina al premio strega 2017 con La reliqua di Costantinopoli.
Prima dell'alba  è un romanzo storico che si svolge su due tempi: l'ottobre 1917, il disastro della battaglia di Caporetto e la lunga marcia di ripiegamento delle truppe italiane, e il febbraio 1931, col misterioso ritrovamento del cadavere di Andrea Graziani, Luogotenente Generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, lungo i binari della ferrovia in direzione Prato.

Paolo Malaguti, grazie a un approfondito studio storico del linguaggio di entrambe le epoche, in particolare del gergo militare del 1917, restituisce uno spaccato profondamente realistico sia della durissima vita di trincea della Grande Guerra, sia della doppia verità del regime fascista, quella propagandata dall'alto e quella taciuta dai più ma ben più aderente al vero, a partire dai soprannomi di Graziani, definito "papà Graziani" dalla propaganda che ne impone un'immagine di padre comprensivo, "severo ma giusto", al nomignolo che invece circolava tra le truppe italiane fin dalla Grande Guerra: "il boia".

Il romanzo, che può essere definito un "giallo storico", avvince e appassiona dalle prime pagine fino allo struggente finale, in cui viene risolto il mistero che lega a filo doppio le due trame e i due tempi sviluppati nel corso libro, restituendo alla memoria collettiva la figura terribile di Andrea Graziani e dei suoi innumerevoli, impuniti e dimenticati crimini, avallati all'epoca da leggi speciali in tempo di guerra, che consentivano un arbitrio pressoché illimitato a chi disponeva del potere di decidere, anche per futili motivi, della vita e della morte dei soldati.

In questa intervista per Rai Letteratura Paolo Malaguti ci ha parlato delle trame del libro; dei due personaggi principali della storia: "il Vecio", soprannome di un fante italiano testimone del disastro di Caporetto e delle crudeltà di Graziani, e l'ispettore Ottaviano Malossi, ufficiale della Polizia di Stato nella questura centrale di Firenze a cui viene affidato, suo malgrado, lo spinoso caso del ritrovamento del corpo di Graziani; e dell'incredibile lavoro di Malaguti sul linguaggio del libro e dei suoi personaggi, di come è riuscito, utilizzando un gergo fatto di tecnicismi militari e neologismi da quotidianità di trincea, a raccontare una storia fluidissima in cui il lettore stesso trae piacere dalla scoperta di parole nuove, grazie anche all'utile e affascinante glossario in appendice del libro.
 



Andrea Graziani nacque nel 1864 a Bardolino. Sottotenente nel 1882, fu in Eritrea nel 1887 e nel 1904 insegnò alla Scuola di Guerra. Passò successivamente col grado di capitano dal 2° alpini al corpo di S.M. della divisione di Ancona nel 1895. Durante il terremoto di Reggio e Messina (1908) meritò un encomio speciale e la medaglia d'oro di benemerenza per i soccorsi prestati. Colonnello nel 1915 al 15° bersaglieri comandò le brigate Jonio e Venezia in Valsugana e la 44ª divisione sul Pasubio durante la Strafexpedition del maggio-giugno 1916, che gli fece guadagnare la fama di “eroe del Pasubio”. Il Dizionario Biografico dei Veronesi dell'Accademia di Agricoltura, scienze e lettere di Verona, scrive che:
"Sempre e dovunque si è distinto per la brutalità verso i sottoposti. Fucilazioni, decimazioni, punizioni mortali."
 In particolare, fu protagonista dell'esecuzione, il 3 novembre 1917 a Noventa Padovana, dell'artigliere Alessandro Ruffini (29 gennaio 1893-3 novembre 1917), colpevole di averlo salutato militarmente senza prima essersi levato di bocca il sigaro che stava fumando. Ruffini fu prima brutalmente bastonato e successivamente fucilato "per dare un esempio terribile atto a persuadere tutti i duecentomila sbandati che da quel momento vi era una forza superiore alla loro anarchia", come affermò lo stesso Graziani in risposta ad alcune proteste e interrogazioni parlamentari sollevate a seguito della pubblicazione della notizia della fucilazione di Ruffini sul quotidiano Avanti! del 28 luglio 1919.
L'11 aprile 1918 il ministero della Guerra lo incaricò di costituire un corpo di cecoslovacchi (ex prigionieri) combattenti in Italia; costoro iniziarono la costruzione della strada sul Monte Baldo —«la strada per Praga» la chiamarono— che poi il generale riuscì a far completare dopo la guerra.
Nel dopoguerra, con il fascismo, comandò la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn) per le province di Trento, Vicenza, Verona e Belluno. Si appassionò alle opere pubbliche: oltre alla «sua» strada sul Baldo, fu un grande sostenitore della Galleria Adige-Garda tra Mori e Torbole, che sarà terminata però nel 1959, e del Canale Biffis in val d'Adige, iniziato nel 1928 e finito nel 1943. Si schierò con gli agrari nelle grandi opere di bonifica, presiedette il consorzio Utenti acque medio Adige e rimboschì colline e montagne veronesi. Fu sindaco di San Massimo negli anni Venti, comune poi accorpato con Verona nel 1927.
Il 27 febbraio 1931 il generale fu trovato morto sui binari nel tratto Prato-Firenze: la causa della morte non fu mai accertata, anche se le autorità dell'epoca archiviarono il caso come una caduta accidentale dal treno. 


Alessandro Ruffini
Graziani





2a di copertina
3a di copertina