MASSARENTI Giuseppe
(Molinella (Bologna) 8.4.1867 – Molinella (Bologna) 31.3.1950)
Nato nel 1867 a Molinella da Petronio e Celeste Andrini. Terzogenito di
tre fratelli e una sorella, proviene da una famiglia borghese che ha nel
nonno, anch’esso Giuseppe, un rinomato gargiolaio (1) e negoziante di
prodotti in canapa. Impegnato in una importante attività commerciale è
anche il padre, che è un fervente mazziniano, come di idee
risorgimentali è anche la madre.
Rimasto orfano all’età di quattro anni,
viene adottato dallo zio paterno Vincenzo che, artigiano pilarino e poi
oste, lo avvia agli studi. Si diploma quindi in ragioneria e nel 1893
si laurea in farmacologia presso l’Università di Bologna.
Nella metà
degli anni '80 inizia il suo impegno verso il mondo contadino animato da
idee radicali e subisce anche le prime denunce e condanne. Passato al
socialismo-rivoluzionario, nel 1890 partecipa al v Congresso del Psrr e
nel 1892 è a Genova al congresso di fondazione del Psi, in
rappresentanza della Lega democratica di Molinella. Capo ed esponente
emblematico per decenni delle lotte contadine di Molinella, nel corso
dello stesso anno fonda una Lega di resistenza, nel 1895 viene eletto
nel consiglio comunale, e l’anno dopo dà vita ad una cooperativa di
consumo. Le vaste lotte bracciantili e la conseguente repressione del
1898 lo vedono più volte denunciato ed arrestato. Con l’elezione di una
giunta socialista nel 1900, giunge a compimento quella che è forse la
sua maggiore idea-forza ideologica, imperniata sul triangolo
organizzazione sindacale-cooperazione-comune. La ripresa delle lotte
agrarie di inizio secolo ed una nuova condanna in contumacia a 14 mesi
nel 1901, lo costringono l’anno dopo a riparare in Svizzera per sfuggire
ad un mandato di cattura. A Lugano, dove si stabilisce, fa il
portabagagli ed il farmacista. Condonatagli la pena, nel dicembre del
1905 ritorna definitivamente a Molinella, che lo elegge sindaco nel
novembre successivo. Nel 1908 viene eletto anche nel consiglio
provinciale, nel quale rimane poi sino al 1913 quando viene candidato
alla Camera ma riesce sconfitto a Budrio durante una tornata elettorale
suppletiva. Dopo le vaste lotte bracciantili del 1914, che portano a
furiosi scontri fra scioperanti e crumiri, con diversi morti e più di
duecento arrestati, e che provocano anche lo scioglimento
dell’amministrazione comunale, deve riparare a San Marino. Sottoposto ad
una feroce campagna di stampa accusatoria (fra cui i due noti pamphlet
“massarentofobi” del 1914 e 1916 di Mario Missiroli), risponde
dall’esilio con lettere ed articoli sull’Avanti!, sul Giornale del mattino, sulla Squilla e con il saggio La Repubblica degli accattoni.
Chiusisi alfine i procedimenti penali, dai quali riesce assolto, nel
1919 può rientrare a Molinella, che l’anno seguente lo rielegge nel
consiglio comunale e quindi nuovamente sindaco. La “Molinella rossa”,
serrata nel suo isolamento comunalistico, non può tuttavia reggere
l’urto dell’assalto squadristico. Nel 1921, sfuggito ad un attentato
fascista, si trasferisce a Roma dove poi rimane fino al 1926. Passato
nel frattempo nelle fila del Psu (ottobre 1922), dopo le leggi
eccezionali viene assegnato al confino per cinque anni, che sconta a
Lampedusa, Ustica, Ponza e ad Agropoli. Liberato nel novembre del 1931
ma impossibilitato a ritornare a Molinella, per l’interdizione posta nei
suoi confronti da parte dei fascisti, vive per alcuni anni in profonda
miseria (per un anno dorme anche sotto i portici del Vaticano), fino a
che nel 1937 viene richiuso dalla polizia in un manicomio a Roma. Qui
rimane per altri sette anni sino al dicembre del 1944, quando, sei mesi
dopo la liberazione della capitale, è alfine liberato. L’adesione al
Psli, dopo la scissione di Palazzo Barberini (gennaio 1947), gli
compromette una sua candidatura unitaria al Senato da parte dei partiti
di “sinistra” durante le elezioni politiche dell’aprile 1948; candidato
solamente come indipendente socialista nel collegio di
Portomaggiore-Molinella, non riesce eletto. Ritornato a Molinella nello
stesso aprile 1948, vi muore due anni dopo. Ai funerali dell’“apostolo
della cooperazione” presenzia e rende omaggio anche il presidente della
repubblica, Luigi Einaudi.
(1)
Gargiolai (o Gargiolari)
Garžulær, (sing. e pl. inv. -itz. gargiolai o gargiolari; urbano šgažulær-). Pure i gargiolari ope-ravano in gruppetti di poche unità e si distinguevano dai canapini per le diverse funzioni che questi avevano, nei diversi trattamenti della canapa e nel contesto del loro lavoro. Il nome gargiolaio viene, appunto, da gargiolo;
ottenuto dalla cernita della canapa più fine. Loro compito era quello
di trattare, pettinare il gargiolo per poi essere filato e tessuto. Da
questa lavorazione si ottenevano tre scelte: a) – ramndî, sing. ramndæl (intr.). Era la parte del tiglio che ricopriva il fusto della pianta. Dopo la starpunæ (itz. starponata, a Pieve di Cento detta tâj [taglio]) in tre pezzi, poi pettinata ne uscivano i ramndî che erano la parte più fine della concia, i quali, filati, davano il filo. A volte si faceva una lavorazione ancora più fine e si otteneva al muræl (intr.: itz. darebbe morale o morello ma nell’ambiente, in questa accezione, rimarrebbero termini senza senso in quanto apparterrebbero ad altri contesti). Con il muræl si
otteneva il filo più sottile di tutti gli altri, ottenuti con le scelte
successive. Con la tela da questo ottenuta si facevano le doti da sposa
per le ragazze della famiglia, ma non sempre; si usava parimenti anche
tela fatta con filo di ramdæl senza la distinzione fra bdæl e muræl.
Con questi due tipi di tela si facevano anche biancheria intima,
asciugamani, lenzuola e quant’altro si potesse ottenere di fino; b) – manæle (pl. manæl, itz. mannella): era la seconda scelta (parte migliore dello scarto del gargiolo non usato per i ramndî), la cui filatura e tessitura dava la tàile ed manæle (tela di manella), con la quale si poteva fare praticamente di tutto ma era particolarmente usata per fare pantaloni, detti ed rigadéñ (itz.
di rigatino); verosimilmente perché questi, qualche volta fino alla
seconda guerra mondiale, venivano tinti in toto o con righe colorate in
blu o marrone. Questo fatto, molto probabilmente, è un’eredità fin dal
primo ’600, quando da quelle parti e non solo, si portavano le brache a
righe; la maschera del Narciso da Mal Albergo ne è buon testimone. I calzoni dei vecchi, a volte, erano tinti in tinta unica, molto tempo prima dell’avvento dei jeans americani; c) – tûz, sing. tôz, (intr.: itz. darebbe tozzi;
essendo parola monosemica non ha senso in altri contesti), terza
scelta, la più rozza: era il primo scarto ottenuto dalla lavorazione
che, filato, dava la tàile ed tôz
(lett. tela di tozzo), la quale serviva per fare sacchi, teloni da
carro e altro, nonché lenzuola per i ragazzi, per i bambini (chi scrive
compreso). Quando le lenzuola erano nuove e i ragazzi la mattina si
alzavano dal letto, potevano avere la pelle rossa e non immune da
qualche piccolo graffio.
A proprosito di gargiolari e canapini
è quanto meno opportuno chiarire il significato dei due termini che
(capita spesso) vengono fraintesi e confusi l’uno con altro; nel
contempo serve come esempio di lettura per un qualsiavoglia elemento
delle culture materiali. Questa distinzione si con-cretizza nel contesto
dell’oggetto di cui si parla. Poiché in quel mondo non esiste nulla in
sé, e tutto quanto lo compone (attrezzi, azioni, psicologie,
comportamenti, superstizioni e quant’altro) trova la propria ragione di
essere in un contesto, appunto, si approfitta per dire: a) – i gargiolari (detti anche cuñzéñ [itz. concini, conciatori?]) conciavano il gargiolo
secondo la tecnica necessaria per predisporlo ad ulteriori lavorazioni
per uso domestico; quindi, il fine di questa attività rientrava nel
contesto dell’economia domestica; b) – i canapini
lavoravano la canapa secondo una tecnica richie-sta per l’ammasso;
quindi, il fine di questo lavoro era il mercato. Cosa che,
verosimilmente, è stata da sempre. Questo chiarimento per dire che,
purtroppo, a volte può capitare, che senza inquadrare l’argomento nel
contesto che gli è proprio, possa comparire altra cosa che potrebbe
essere definita o indefinita; in quest’ultimo caso potrebbe anche essere
qualsiasi cosa. Questo stesso discorso vale pure per i contadini, comunemente intesi.
Link: Il dialetto della bassa
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