lunedì 26 maggio 2014

Tortonesi Carlo

Tortonesi Carlo.

Vezzalini appena venne nominato capo della provincia di Ferrara per meglio realizzare i suoi aberranti disegni politici si diede una polizia personale, la famigerata banda dei TUPIN che affidò al capitano della Guardia Nazionale Repubblicana Carlo Tortonesi il più fedele dei suoi scherani.
La compagnia dei TUPIN, formalmente inquadrata nella Guardia Nazionale Repubblicana, di fatto era autonoma ed era alle dirette dipendenze dello stesso Vezzalini che se ne servì per perpetrare i crimini più efferati. 
Incerto è l'origine del nome Tupin: più di uno storico ha ipotizzato che Tupin altro non sia che l'espressione dialettale dei piccoli topi di campagna. Nel secondo processo Tortonesi si legge invece che Tupin sta ad indicare il motto "Tutti uniti per l'Italia nostra". Motto che in teoria aveva delle forti connotazioni ideali e patriottiche che vennero però tradite da ignobili comportamenti.
Per l'assoluta obbedienza al loro capo, i Tupin venivano chiamati i "Moschettieri di Vezzalini". Erano considerati un corpo di agenti scelti armati di mitra e bombe a mano, che scorazzavano per la provincia, ponendo in essere ogni forma di nefandezze. Quando non riuscivano giustificare i loro efferati delitti ne attribuivano la colpa ai "ribelli".



Ma chi era Tortonesi? 
Nato a Fossanova San Marco (Ferrara) il 5 dicembre 1916 e coniugato con due figli, Tortonesi era il figlio naturale di Olga Tortonesi. Meccanico industriale, fu richiamato alle armi nel settembre 1939 ed assegnato al 32º reggimento carristi. Partecipò alle azioni di guerra sui fronti francese e jugoslavo ed infine nell'Africa settentrionale dove in seguito a varie ferite venne rimpatriato.

Con Regio Decreto del 14 novembre 1941 gli fu conferita la Croce di Guerra al valor Militare con la seguente motivzione:
"Motocicletta battaglione carri durante dieci giornate di combattimenti di giorno e nottetempo instancabile con disprezzo del pericolo porta a compimento numerose azioni. Esempio di alto senso del dovere. Ed Maddamur (Tobruch) 1° maggio 1941" .

Nel settembre 1943, mentre si trovava in convalescenza nella sua abitazione di San Bartolomeo in Bosco, Tortonesi allettato dalle proposte del federale di Ferrara Igino Ghisellini, sue ex comandante in Jugoslavia, aderì con entusiasmo alla proposta di continuare a combattere contro gli eserciti alleati e contro gli antifascisti.
Posto al comando di un gruppo di giovani fascisti, creò la famigerata compagnia dei "TUPIN" composta dagli elementi più fanatici ed esaltati.
Promosso capitano, collaborò prima con Ghisellini e poi con Vezzalini, che seguì fino alla cattura di quest'ultimo.
Si dimostrò sempre un convinto e attivo collaboratore dei nazi-fascisti e fedele interprete della volontà del Vezzalini, che gli affidò i compiti più ingrati e pericolosi.
Violento per temperamento, Tortonesi non rifuggì dall'usare la forza, come emerse dalle numerose testimonianze di persone da lui fatte arrestare.
Egi stesso, nei vari processi, ammise di avere inferto ceffoni alle sue vittime. Non rifuggì nemmeno dal partecipare e dall'ordinare rappresaglie ed uccisioni, come dimostrano l'eccidio di Goro, l'uccisione del partigiano novarese Giuseppe Fava e la spedizione punitiva di Cavezzo che si concluse con l'uccisione dei due partigiani Renzo Iemma e Giovanni Benatti.

Il primo processo alla banda dei "tupin" venne celebrato dal 7 all'11 ottobre 1946 presso la C.A.S. (Corte d'Assise Speciale)di Ferrara.
Il secondo, sempre a Ferrara, nei giorni 15, 16 e 17 aprile 1947 e la Corte d'Assise Speciale emise la seguente sentenza:


CONDANNA

TORTONESI CARLO alla pena di morte mediante fucilazione alla schiena, nonostante il diverso avviso del P.M., per l'eccidio d Goro e per gli omicidi di Benatti e di Iemma e di collaborazionismo politico e militare ai sensi degli articoli............................

....omissis .............

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La pena capitale nei confronti del Tortonesi non venne mai eseguita perchè la Corte di Cassazione con sentenza del 19 novembre 1948 tramutò la pena di morte in ergastolo.
In applicazione dei Decreti Presidenziali di amnistia ed indulto del 22 giugno 1946 n. 4 (amnistia Togliatti) e del 19 febbraio 1949 n. 930, la Corte d'Appello di Bologna, con declamatoria del 27 maggio 1950, ridusse la pena ad anni 19 di reclusione.
In applicazione del Decreto Presidenziale del 19 dicembre 1953 n. 922, la pena a carico del Tortonesi venne ulteriormente ridotta ad anni 10 di reclusione, ma di quest'ultima pena il Tortonesi non scontò che un anno, cinque mesi e 8 giorni, essendogli stata concessa la liberazione condizionale (libertà vigilata) con D.M. n. 06990/52 dl 23 luglio 1954.
Il Tortonesi, quindi, dopo avere scontato appena poco più di 9 anni e sei mesi di reclusione, chiudeva il proprio conto con la giustizia nonostante le sue mani si fossero macchiate di tanti efferati delitti.
Con sentenza dell'8 settembre 1967 della Corte d'Appello di Bologna, il Tortonesi, che nel frattempo si era trasferito a Milano, otteneva anche la riabilitazione.
Per la giustizia italiana, quindi, l'ex repubblichino, le cui mani grondavano ancora di sangue, poteva presentarsi agli occhi del mondo come una persona pulita, come se non avesse mai avuto a che fare con la giustizia.

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Queste notizie sono tratte dal libro

LA SCIA DI SANGUE LASCIATA DAI "TUPIN" (1943/1945)

di Rolando Balugani

Edizioni Sigem 



Un treno per l'Europa


La France. La grandeur. La perfection. Et voilà: dall’altra parte delle Alpi hanno costruito vagoni più larghi delle banchine dentro le quali sarebbero dovuti passare. Pare che sui fianchi metallici spuntino venti centimetri di troppo: le famose maniglie dell’amore (poignées d’amour). Rimettere i treni sul binario giusto costerà cinquanta milioni di euro pubblici, per lo scorno di monsieur Dupont (il francese medio) e la gioia di madame Le Pen (la francese smodata) a cui stavolta i voti arriveranno direttamente in carrozza. C’est pas possible! E invece sì: basta che gli ingegneri preposti alla costruzione dei vagoni li progettino minuziosamente sulla carta senza mai degnarsi di alzare il sedere (le derrière) per andare a misurare dal vivo la larghezza di una banchina. Si sono fidati di dati antichi, di polverose mappe, quando sarebbe bastato recarsi nella più umile stazioncina di provincia con un righello. Ah, la présomption! (presunzione)! Ah, la paresse (pigrizia)! Ma da che monde è monde, sommando paresse e présomption si ottiene sempre una bêtise (stupidaggine).  

Stiamo infierendo sui socievoli cugini, confidando nella loro proverbiale autoironia? Fosse successo a noi, ci avrebbero dedicato una sinfonia a base di smorfie di disgusto, scuotimenti di testa e raffiche di «mon Dieu!» Ma a noi non sarebbe mai potuto succedere, per la semplice ragione che qualche burocrate o contestatore avrebbe fermato la costruzione dei treni se non addirittura quella dei binari. Alla peggio avremmo spacciato i vagoni grassi per una nuova moda. Altra classe, se permettete. Noi le stupidaggini le sappiamo truccare da opere d’arte, e senza neanche darci tante arie. 

Massimo Gramellini, La Stampa 22/5/2014

lunedì 5 maggio 2014

Cinque Maggio

L'ode il Cinque Maggio fu scritta, di getto, in soli tre o quattro giorni, dal Manzoni commosso dalla conversione cristiana di Napoleone avvenuta prima della sua morte (la notizia della morte di Napoleone si diffuse il 16 luglio 1821 e fu pubblicata nella "Gazzetta di Milano"). Nonostante la censura austriaca, l'ode ebbe una larga diffusione europea grazie al Goethe che la fece pubblicare su una rivista tedesca "Ueber Kunst und Alterthum". La prima edizione avvenne nel 1823 a Torino presso il Marietti. L'ode scritta dal Manzoni, per alcune tematiche (tema del ricordo, evocazione della storia) ha delle analogie con il Coro di Ermengarda e con la Pentecoste e soprattutto ha in comune con essi, quello schema che parte da un inizio drammatico e si conclude con un moto di preghiera.


Ei fu. Siccome immobile,
dato il mortal sospiro,
stette la spoglia immemore
orba di tanto spiro,
così percossa, attonita
la terra al nunzio sta,
muta pensando all'ultima
ora dell'uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie' mortale
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.

Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all'urna un cantico
che forse non morrà.

Dall'Alpi alle Piramidi,
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall'uno all'altro mar.
Fu vera gloria? Ai posteri
l'ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito
più vasta orma stampar.

La procellosa e trepida
gioia d'un gran disegno,
l'ansia d'un cor che indocile
serve, pensando al regno;
e il giunge, e tiene un premio
ch'era follia sperar;
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull'altar.

Ei si nomò: due secoli,
l'un contro l'altro armato,
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe' silenzio, ed arbitro
s'assise in mezzo a lor.
E sparve, e i dì nell'ozio
chiuse in sì breve sponda,
segno d'immensa invidia
e di pietà profonda,
d'inestinguibil odio
e d'indomato amor.

Come sul capo al naufrago
l'onda s'avvolve e pesa,
l'onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere
prode remote invan;
tal su quell'alma il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,
e sull'eterne pagine
cadde la stanca man!
Oh quante volte, al tacito
morir d'un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l'assalse il sovvenir!

E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,
e il lampo de' manipoli,
e l'onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.
Ahi! forse a tanto strazio
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;
e l'avvïò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov'è silenzio e tenebre
la gloria che passò.

Bella Immortal! benefica
Fede ai trïonfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.


Le tombeau de Napoléon Ier
 Ludovico Tullius Visconti (1791-1853), architetto.
(Photo R.M.N. Daniel Aenaudet)



Tomba di Napoleone - foto Nonnokucco, 2000