venerdì 17 novembre 2017

COLORI DELL'AUTUNNO














VILLA NAVARRA - GUALDO



Foto tratte da internet




Foto Nonno Kucco

Foto Nonno Kucco

Foto Nonno Kucco
«a torre d«La torre di Gualdo era tra i beni d
otali di Parisina Malatesta, andata sposa al marchese Nicolò III d’Este nel 1418. L’anno dopo la tragica morte di Parisina insieme al figliastro Ugo (1425), la torre passò in dote a Margherita, figlia dello stesso Nicolò, che andava sposa a Galeotto Roberto Malatesta, cugino di Parisina. La torre è probabilmente da individuare in quella incorporata nella villa già della famiglia Navarra, nei pressi del paese lungo la strada provinciale».i Gualdo era tra i beni dotali di Parisina Malatesta, andata sposa al marchese Nicolò III d’Este nel 1418. L’anno dopo la tragica morte di Parisina insieme al figliastro Ugo (1425), la torre pin dote a Margherita, figlia dello stesso Nicolò, che andava sposa a Galeotto Roberto Malatesta, cugino di Parisina. La torre probabilmente da individuare in quella incorporata nella villa già della famiglia Navarra, nei pressi dpaese lungo la strada provinciale».
://www.castelloestense.it/delizie/ita/paesaggio/torre_parisina.h

mercoledì 15 novembre 2017

FERRARA - IL PODESTA' EBREO - LA STORIA DI RENZO RAVENNA





Quanto segue è stato pubblicato sulla rivista FERRARA - VOCI DI UNA CITTA' - edito dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ferrara nel dicembre 2006.
Lessi con molto interesse il libro di Ilaria Pavan e penso sia utile leggere l'ntervista che segue.

"Un uomo onesto, capace, dotato di uno straordinario rispetto per la cosa pubblica. E che non ha mai nascosto di provare un amore quasi morboso per Ferrara". 

Ilaria Pavan, ricercatrice storica alla Scuola Normale di Pisa, tratteggia così, in estrema sintesi, una figura straordinaria di ferrarese, quella di Renzo Ravenna, su cui si incentra il libro Il Podestà ebreo, edito da Laterza.

Nel suo giudizio istintivo sembra prescindere dal contesto storico e politico: gli anni Trenta e Quaranta, l'ebraismo di Ravenna, le persecuzioni razziali, la guerra, la Shoah.
In realtà è impossibile slegare la vicenda di Ravenna, e l'analisi della città, dallo scenario e dagli avvenimenti, umani e sociali, che in quegli anni sono stati emblematici non solo per Ferrara. Semmai dall'inizio del lavoro mi ha preso un assillo, che mi ha accompagnato poi durante la stesura del libro: il timore di aver stabilito, quasi inevitabilmente, un'empatia positiva con il personaggio, sino al punto di rischiarne l'apologia.

Non è accaduto, il libro rappresenta un mirabile esempio di equilibrio. 
Merito anche della collaborazione preziosa di Paolo Ravenna. Non avevo mai sentito parlare del podestà ebreo di Ferrara, non sapevo nulla del suo legame con Italo Balbo. Stavo lavorando alla mia tesi, un giorno ricevetti la telefonata dell'avvocato, che mi propose di ricostruire la vicenda di suo padre. Mi ha subito conquistato, innanzitutto con la storia di quest'uomo tipico dell'Italia del suo tempo, quindi con la ricchezza dei materiali dell'archivio, infine per non avermi mai nascosto una sola carta, per la sorridente ossessione di andare a stanare in soffitta anche il più polveroso dei fascicoli. Tanti consigli sensibili, mai una censura. Mi sono sempre sentita libera di scrivere quello che vedevo e pensavo.

Torniamo da capo: chi era Renzo Ravenna? 
Mi piace definirlo prima un italiano che un ebreo. Perchè faceva parte di quella generazione d'italiani che ha creduto onestamente nel fascismo, approdandovi spesso da sponde opposte. Anche Renzo Ravenna frequentava l'ambiente dei sindacalisti rivoluzionari e come tanti criticava il sistema giolittiano. Poi, durante la prima guerra mondiale, non partì come volontario: ne fortificò l'animo facendo emergere ancor più le sue doti di rigore morale e capacità di dialogo. Diversamente da Italo Balbo, non era uno sbandato: si laureò, si sposò, ebbe dei figli. La sua adesione al fascismo fu consapevole, non strumentale.

Ma quegli anni furono segnati, anche a Ferrara, da episodi aspri, terribili. Ravenna non se ne accorge? 
Decise di assumere le redini del partito in città durante la crisi Matteotti e dopo l'assassinio di don Giovanni Minzoni. Non può certo passare per un ingenuo né mai ha mostrato di voler cancellare le proprie responsabilità politiche. Anche se nelle vicende più tragiche, non ebbe sicuramente parte attiva. Nel suo impegno non c'è comunque contraddizione, perchè nell'attività di podestà mise la cura di un amministratore rigoroso e di un leale servitore delle istituzioni.

Ha citato Balbo, con cui Ravenna ha condiviso un'amicizia durata una vita. Un rapporto che a tratti è stato addirittura mitizzato, a Ferrara. Molti, semplificando, hanno persino parlato di un filo ebraismo del gerarca. 
Non corriamo. L'amicizia c'è stata ed è stata saldissima, anche se durante le mie ricerche non ho trovato uno straccio di carta, una lettera che ne testimoniasse l'intensità. Al di là di telegrammi, di bigliettini d'auguri, di piccole pezze d'appoggio era tutto, come dice lei, affidato al racconto o persino al mito; la realtà è comunque di due persone cresciute assieme, che frequentavano la stessa palestra e abitavano a pochi passi di distanza, con compagni di gioco comuni tra cui molti di religione ebraica. Due persone che negli anni continuano a vedersi e sentirsi, a collaborare e condividere tanti progetti per Ferrara. Tornando peraltro all'assenza di documentazione, vedo poco nella personalità di Balbo una sua attitudine a mettersi a scrivere lunghe, enfatiche lettere agli amici.

E l'amicizia con Ravenna come prova di un atteggiamento più morbido nei confronti del'antisemitismo? 
Balbo non si è mai esposto pubblicamente e in modo concreto a favore degli ebrei. Forse non ha condiviso la scelta delle persecuzioni razziali, sicuramente nei confronti di Ravenna è stato un amico leale e in varie circostanze può aver anche portato il proprio aiuto, ma di qui a mettere in gioco la propria carriera e il ruolo politico ce ne corre. Le sue responsabilità, per ciò che avvenne in quegli anni a Ferrara e in Italia, non possono essere alleggerite.

Il suo libro è sapientemente suddiviso in due parti: la prima focalizzata sulla figura di Ravenna, la seconda incentrata sulla città. 
Se l'avventura umana del podestà ebreo era sicuramente coinvolgente, lo studio di ciò che Ferrara rappresentava in quegli anni è stato lo spunto forse più intrigante. La storiografia pur sterminata sul fascismo, ha grandi lacune: mancava uno studio sull'operare concreto delle amministrazioni locali fasciste, e in questo senso la città che era stata culla del fascismo agrario rappresentava un caso rilevante, un possibile paradigma. Quale in effetti emerge alla fine del volume.

Per quali motivi?
Essenzialmente due. L'azione condotta nella riqualificazione urbanistica e la politica culturale. In entrambi i casi, non dobbiamo perdere di vista gli obiettivi politici: nel primo, arginare la disoccupazione dilagante dei braccianti agricoli che rischiava di deflagrare in scontri cruenti. Di qui l'idea di varare una serie di opere pubbliche che, nel contesto urbanistico della città, hanno assunto una grande valenza. Penso al cosiddetto piano Contini, la riqualificazione di alcuni quartieri centrali tuttora di grande pregio.
Sul secondo versante, il discorso sarebbe amplissimo: la politica culturale, per il fascismo, era innanzitutto funzionale alla creazione del consenso. In città c'era un'esigenza in più, quella di ripulire l'immagine dello squadrismo ferrarese facendo leva sulle classi medie. Di qui il recupero della Corte Estense e il parallelismo, ben calcolato, tra il Rinascimento e il nuovo regime.


Che ruolo ebbero Ravenna e Balbo in questa operazione? 
Decisivo. Assieme a Nello Quilici, direttore del Corriere Padano, elaborarono un modello basato sulla riproposizione di quel mito autoctono, incentrato sugli Estensi e la loro grandezza illuminata. Tra le grandi mostre e la riproposta del Palio, l'operazione ebbe un'indubbia valenza e rappresentò una sorta di autarchia alla ferrarese, distinta e distante dall'agiografia della romanità su cui si basava invece il fascismo. Altro particolare importante, a pilotare questa operazione fu essenzialmente il Comune, il fascio ferrarese non ne era in pratica coinvolto.

Pensa che questo contribuì a urtare qualche suscettibilità?
Per Ravenna non credo, di Quilici non so. Per Balbo ritengo che Mussolini gli riconoscesse in fondo la capacità di aver costruito questo mito autonomo, anche se forse il clamore delle iniziative un po' lo turbasse.

Restiamo al podestà ebreo. Arrivano le leggi razziali, poi la guerra e, nel '40, il brusco abbandono dela carica. Preludio agli orrori degli anni successivi. Come visse questa fase?
Come molti ebrei figli dell'emancipazione liberale, anche Renzo Ravenna visse la propria doppia identità, se così posso definirla, senza eccessive contraddizioni. Anche quando la situazione, dal '38, si fece oggettivamente più complicata, si sentiva relativamente sicuro. Lasciò la carica nel '40 e, pur di fatto costrettovi, dichiarò esplicitamente di ritenersi ancora al servizio, a disposizione dello Stato. E fino al '43, come molti altri ebrei italiani, sembrò addirittura non volersi rendere conto di quello che accadeva. Aveva rescisso il legame con il Pnf, di fatto non con le istituzioni e con la propria città. Poi la situazione precipitò, e dovette subire assieme alla famiglia la prova terribile e dolorosa della Shoah.

Il Ravenna che torna a Ferrara dopo la liberazione dei campi, chi è? 
Un uomo ancora giovane ma stanco, profondamente provato. Ha capito perfettamente le responsabilità che ha avuto, e decide di non misurarsi più con la vita pubblica pur essendo un professionista stimato e benvoluto. Non farà mai ammenda, neppure in privato, delle vicende che lo hanno visto protagonista, ma è evidente che in grande riserbo patisce un enorme travaglio interiore. Muore a sessantotto anni, quando il cuore cede all'improvviso.

Nel libro questi eventi, al pari di molti altri, sono raccontati con il piglio della narratrice più che con il taglio della storica. 
Che bel complimento! Non mi ritengo abile nella scrittura e in genere i miei testi sono fitti di note e rimandi. È un problema generale, e so di farmi qualche nemico dicendolo: spesso gli storici fanno a gara a scrivere in maniera oscura e arzigogolata, in modo che il lettore capisca poco.

Anche per questo il libro su Renzo Ravenna appare mirabile. 
Non certo per le mie doti letterarie. Ritengo che sia frutto soprattutto dell'interesse suscitato dalla vicenda umana e politica del podestà ebreo, dell'eccezionalità del contesto sociale della città, oltre che dei contributi alla stesura del testo. Fondamentale anche il ruolo di Alberto Cavaglion, dell'Istituto per la Storia della Resistenza di Torino, che oltre a scrivere una illuminante postfazione mi ha dato consigli sia stilistici che di sostanza. Senza il suo apporto, e quello di Paolo Ravenna, forse i miei tre anni di lavoro non avrebbero raggiunto lo stesso risultato.

E la tesi che stava scrivendo al momento della fatidica telefonata dell'avvocato Ravenna? 
L'ho completata, l'ho pubblicata, ma non ha avuto sinora alcuna recensione.


Renzo con i suoi artiglieri da montagna a Pin delle Fugazze nel giugno 1915



Il Podestà Ravenna, al centro, con Italo Balbo e Vittorio Emanuele III, (nei sedili posteriori) a Ferrara nel 1928 per l'inaugurazione della Torre della Vittoria

lunedì 13 novembre 2017

PRIMA DELL'ALBA - Paolo Malaguti - Romanzo storico




Nel centenario della "disfatta" di Caporetto, Paolo Malaguti compone un impeccabile romanzo che getta una luce nuova sulle scelte, di memoria e celebrazione, di oblio e censura, fatte dall'Italia "vittoriosa" attorno al mito della grande guerra e al destino dei troppi caduti di quella inutile strage che, a parere di molti, segnò la vera fine della civiltà europea.

"Avanti e morire, avanti e morire.
Non c'era più nemmeno una parvenza di ardore,
negli uomini intorno a lui. Non era difficile
vedere qualcuno andare all'attacco
con una espressione strana in viso,
che faceva venire la pelle d'oca.
Non più paura, non più ardore,
per chi mai ne avesse avuto.
Arrivava l'ordine , e si andava".



Prima dell'alba, pubblicato da Neri Pozza, è il nuovo libro dello scrittore Paolo Malaguti, finalista in cinquina al premio strega 2017 con La reliqua di Costantinopoli.
Prima dell'alba  è un romanzo storico che si svolge su due tempi: l'ottobre 1917, il disastro della battaglia di Caporetto e la lunga marcia di ripiegamento delle truppe italiane, e il febbraio 1931, col misterioso ritrovamento del cadavere di Andrea Graziani, Luogotenente Generale della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, lungo i binari della ferrovia in direzione Prato.

Paolo Malaguti, grazie a un approfondito studio storico del linguaggio di entrambe le epoche, in particolare del gergo militare del 1917, restituisce uno spaccato profondamente realistico sia della durissima vita di trincea della Grande Guerra, sia della doppia verità del regime fascista, quella propagandata dall'alto e quella taciuta dai più ma ben più aderente al vero, a partire dai soprannomi di Graziani, definito "papà Graziani" dalla propaganda che ne impone un'immagine di padre comprensivo, "severo ma giusto", al nomignolo che invece circolava tra le truppe italiane fin dalla Grande Guerra: "il boia".

Il romanzo, che può essere definito un "giallo storico", avvince e appassiona dalle prime pagine fino allo struggente finale, in cui viene risolto il mistero che lega a filo doppio le due trame e i due tempi sviluppati nel corso libro, restituendo alla memoria collettiva la figura terribile di Andrea Graziani e dei suoi innumerevoli, impuniti e dimenticati crimini, avallati all'epoca da leggi speciali in tempo di guerra, che consentivano un arbitrio pressoché illimitato a chi disponeva del potere di decidere, anche per futili motivi, della vita e della morte dei soldati.

In questa intervista per Rai Letteratura Paolo Malaguti ci ha parlato delle trame del libro; dei due personaggi principali della storia: "il Vecio", soprannome di un fante italiano testimone del disastro di Caporetto e delle crudeltà di Graziani, e l'ispettore Ottaviano Malossi, ufficiale della Polizia di Stato nella questura centrale di Firenze a cui viene affidato, suo malgrado, lo spinoso caso del ritrovamento del corpo di Graziani; e dell'incredibile lavoro di Malaguti sul linguaggio del libro e dei suoi personaggi, di come è riuscito, utilizzando un gergo fatto di tecnicismi militari e neologismi da quotidianità di trincea, a raccontare una storia fluidissima in cui il lettore stesso trae piacere dalla scoperta di parole nuove, grazie anche all'utile e affascinante glossario in appendice del libro.
 



Andrea Graziani nacque nel 1864 a Bardolino. Sottotenente nel 1882, fu in Eritrea nel 1887 e nel 1904 insegnò alla Scuola di Guerra. Passò successivamente col grado di capitano dal 2° alpini al corpo di S.M. della divisione di Ancona nel 1895. Durante il terremoto di Reggio e Messina (1908) meritò un encomio speciale e la medaglia d'oro di benemerenza per i soccorsi prestati. Colonnello nel 1915 al 15° bersaglieri comandò le brigate Jonio e Venezia in Valsugana e la 44ª divisione sul Pasubio durante la Strafexpedition del maggio-giugno 1916, che gli fece guadagnare la fama di “eroe del Pasubio”. Il Dizionario Biografico dei Veronesi dell'Accademia di Agricoltura, scienze e lettere di Verona, scrive che:
"Sempre e dovunque si è distinto per la brutalità verso i sottoposti. Fucilazioni, decimazioni, punizioni mortali."
 In particolare, fu protagonista dell'esecuzione, il 3 novembre 1917 a Noventa Padovana, dell'artigliere Alessandro Ruffini (29 gennaio 1893-3 novembre 1917), colpevole di averlo salutato militarmente senza prima essersi levato di bocca il sigaro che stava fumando. Ruffini fu prima brutalmente bastonato e successivamente fucilato "per dare un esempio terribile atto a persuadere tutti i duecentomila sbandati che da quel momento vi era una forza superiore alla loro anarchia", come affermò lo stesso Graziani in risposta ad alcune proteste e interrogazioni parlamentari sollevate a seguito della pubblicazione della notizia della fucilazione di Ruffini sul quotidiano Avanti! del 28 luglio 1919.
L'11 aprile 1918 il ministero della Guerra lo incaricò di costituire un corpo di cecoslovacchi (ex prigionieri) combattenti in Italia; costoro iniziarono la costruzione della strada sul Monte Baldo —«la strada per Praga» la chiamarono— che poi il generale riuscì a far completare dopo la guerra.
Nel dopoguerra, con il fascismo, comandò la Milizia volontaria per la sicurezza nazionale (Mvsn) per le province di Trento, Vicenza, Verona e Belluno. Si appassionò alle opere pubbliche: oltre alla «sua» strada sul Baldo, fu un grande sostenitore della Galleria Adige-Garda tra Mori e Torbole, che sarà terminata però nel 1959, e del Canale Biffis in val d'Adige, iniziato nel 1928 e finito nel 1943. Si schierò con gli agrari nelle grandi opere di bonifica, presiedette il consorzio Utenti acque medio Adige e rimboschì colline e montagne veronesi. Fu sindaco di San Massimo negli anni Venti, comune poi accorpato con Verona nel 1927.
Il 27 febbraio 1931 il generale fu trovato morto sui binari nel tratto Prato-Firenze: la causa della morte non fu mai accertata, anche se le autorità dell'epoca archiviarono il caso come una caduta accidentale dal treno. 


Alessandro Ruffini
Graziani





2a di copertina
3a di copertina

sabato 11 novembre 2017

SANTA MARIA DELLA CONSOLAZIONE - FERRARA


Santa Maria della Consolazione - via Mortara 94 - Ferrara

...................... la facciata del tempio, è uno dei tanti “esempi di non finito” a Ferrara, in quanto le riseghe in cotto denunciano chiaramente che essa doveva essere rivestita di marmo. Lo stesso protiro che dà sul sagrato è parte di un portico non completato: entrando nella chiesa si nota nella lunetta l’affresco che rappresenta la “Madonna in trono fra angeli”, opera della seconda metà del XVI secolo attribuita al Bastianino e restaurata nel 1997. Il portale d’ingresso è incorniciato da due pilastri marmorei e da una trabeazione con l’iscrizione latina che ricorda l’intitolazione del tempio alla pia Madre della Consolazione.

Per saperne di più...........






















Link: https://it.wikipedia.org/wiki/Chiesa_di_Santa_Maria_della_Consolazione_(Ferrara)

All'origine della storia della chiesa vi è un miracolo avvenuto nel luogo dove ora sorge la chiesa. Un giorno, mentre un nobile ferrarese si recava in un suo podere fuori città, incorse in alcuni banditi e facendo appello alla Santissima Vergine rimase illeso; corse a casa per poi tornare sul luogo con una tela della Vergine che collocò proprio in quel punto. Nel 1189 venne edificato un piccolo oratorio per contenere l'immagine della Vergine. Negli anni a questa immagine vennero attribuite numerose guarigioni miracolose e grazie a molte persone.
A poco a poco aumentò l'afflusso di gente nell'oratorio, tant'è che il duca Ercole I venne sollecitato a finanziare la costruzione di una chiesa adiacente l'oratorio. Fu così che il 5 aprile del 1501 venne posta la prima pietra proprio alla presenza del duca Ercole. I lavori si conclusero il 16 marzo 1516 e vi fu trasportata l'icona miracolosa. Vicino alla chiesa sorse anche un convento che nel 1528 risultava già essere occupato dalla Congregazione dei Serviti dell'Osservanza. In Santa Maria della consolazione venne sepolta nel 1608 Marfisa d'Este, unica esponente della ex casa regnante a restare in città dopo la devoluzione allo stato pontificio nel 1598. Nel 1781 Papa Pio VI decretò la soppressione del convento, i cui diritti passarono ai Servi di Maria della Basilica di San Pellegrino Laziosi, in Forlì, mentre la chiesa continuò a essere officiata come parrocchia dipendente dalla Curia ferrarese. Nell'ultimo ventennio dell'Ottocento la chiesa venne chiusa al culto e adibita a magazzino prima militare poi comunale, mentre gli arredi sacri furono distribuiti tra le chiese della Diocesi. Nel 1964 la chiesa e il chiostro vennero restaurati ad opera della associazione Ferrariae Decus e dalla Cassa di risparmio di Ferrara. A partire dal 1972, è stata aperta al pubblico. Attualmente a causa del terremoto dell'Emilia del 2012 la chiesa è inagibile.

venerdì 10 novembre 2017

CHIESA DI SANTA MONICA - FERRARA

CHIESA DI SANTA MONICA
VIA MONTEBELLO 44 - FERRARA






La torre presenta la classica architettura del XVI secolo con la coppia di finestre bifore sorrette da una colonna centrale…il tutto ovviamente costruito con il caratteristico mattone “ faccia a vista “ immancabile nelle costruzioni ferraresi antiche ( ma anche in quelle moderne devo dire).







Link: http://www.ferraranascosta.it/chiesa-di-santa-monica/

Quasi in centro a via Montebello si trova una piccola chiesa dedicata a Santa Monica, con un altrettanto piccolo sacrato anteriore. Risalente al 1515, durante l’addizione Erculea, venne eretta per volere di Lucrezia Borgia, attratta dalla spiritualità francescana, su progetto di Gherardo Saraceni. Per lungo tempo la chiesa servì  da monastero per le monache agostiniane. Dalla via Monsignore Bovelli, che affianca la chiesetta, anche se un po’ nascosta agli occhi del turista, è visibile la bella torre campanaria; la torre presenta la classica architettura del XVI secolo con la coppia di finestre bifore sorrette da una colonnina centrale.

Link per saperne di più e vedere foto più belle delle mie.

24 novembre 2020: aggiornamento.

La chiesa non è visitabile. Anni addietro ospitava il mercatino della Caritas e poi fu utilizzata come magazzino.  Una conoscente mi ha inviato una monografia del 1998 redatta dall'allora scuola Marco Polo, ora I.T.C. Bachelet, che si trova sul retro della chiesa.






Trascrizione della
Monografia del 1998 redatta dall’allora scuola Marco Polo, ora I.T.C. Bachelet.

DA CONVENTO DI SANTA MONICA
 I.T.C. MARCO POLO - Ferrara

Il monastero di Santa Monica è costituito da tre edifici fondamentali: la Chiesa, il Coro e il Convento, che hanno mantenuto nel corso dei secoli quasi integra la struttura cinquecentesca.
La Chiesa di Santa Monica infatti fu costruita nel 1515, su progetto di Gherardo Saraceni, per iniziativa del Duca Alfonso I e della moglie Lucrezia Borgia. Iniziata il 2 luglio del suddetto anno, fu terminata e consacrata il 13 luglio1544 dal vescovo di Comacchio Gillino Gillini.

La Chiesa costruita con lo scopo di servire al convento annesso, rimase funzionante anche in seguito alle soppressioni napoleoniche degli ordini religiosi del 1798, e fu aperta al culto sino al 1990.
La Chiesa di Santa Monica ha conservata inalterata la sua struttura originaria e la sua posizione rientrata rispetto alla strada (attualmente Via Montebello): si tratta di un edificio di piccole dimensioni ma elegante e armonioso nelle sue sobrie linee rinascimentali.
La Chiesa è ad un’unica navata a capanna, cioè con il tetto a due falde.
Il prospetto principale, chiamato volgarmente facciata, è sormontato da un timpano con una cornice che lo perimetra, che possiamo anche definire timpanatura modanata, sormontata da tre guglie in pietra a vista. L’architrave e i due montanti sono lavorati con fregi in cotto. Il cotto a Ferrara era molto utilizzato in quanto era difficile e costoso fare arrivare il marmo in città, mentre l’utilizzazione del cotto era incentivata dalla presenza di numerose fornaci nella zona.
Originariamente la facciata doveva essere completamente intonacata con velo leggero in modo che si vedessero i mattoni che poi, secondo un uso del tempo venivano ridipinti tracciando le fughe con colori vivaci come il rosso e il bianco.
Sotto al timpano c’è una fascia con una dedica Dio e a Santa Monica. Nella parte centrale c’è un rosone finestrato con decorazioni in cotto ad ovuli e dardi.
Il portale è sormontato da un timpano a tutto sesto in cotto che doveva essere policromo come si può notare in alcuni punti non deteriorati dalle incrostazioni.
All’interno del timpano c’è una lunetta in cui è raffigurata la Vergine col Bambino sullo sfondo di un paesaggio ad opera del pittore Capuzzo, copia che ha sostituito l’originale di Benvenuto Tisi da Garofalo, la cui presenza sulla porta di tale chiesa è attestata a partire dal 1770.
Questo dipinto, già gravemente deperito per le intemperie e degradato dalle ridipinture, operate da Aurelio Orteschi nel Settecento, nel 1840 venne riparato con lastre ramate ed infine nel 1940, deteriorato ulteriormente, fu staccato dal Capuzzo, che ne conservò l’unico elemento ancora recuperabile, il particolare del Bambino, trasferendolo tutela. Passato poi in proprietà privata, ora si trova sul mercato antiquario ferrarese.
Ai lati del portale ci sono due finestre oblunghe a sesto tondo e a strombo, cioè incassate, la cui forma allungata contribuisce a dare un aspetto armonioso e stancato alla facciata. Ai lati del prospetto ci sono due lesene sormontate da capitelli a volute.
Entrando in chiesa si può subito notare la pianta ad un’unica navata in cui sono situati tre altari: uno di fronte all’ingresso, cioè l’altare maggiore, e due sui lati.
Anche se oggi non è più aperta al culto, è ancora possibile ammirare gli arredi rimasti, anzitutto l’altare maggiore. E’ composto da un piccolo altare in marmo bianco con tre lastre su cui sono impressi, da sinistra a destra, i simboli dell’Ostia, del Crocifisso, le due lettere greche Alfa e Omega, che significano inizio e fine, cioè Cristo.
Sull’altare si trova ancora la pietra sacrale, segno che la Chiesa non è stata sconsacrata.
Sullo stesso altare c’è un tabernacolo in marmo bianco con una porticina in ottone intarsiato con fregi dorati, al cui centro si trova un’ostia dalla quale si diramano fasci di luce.
Sopra al tabernacolo c’è un grande crocefisso in legno con il Cristo in bronzo, che ha sostituito l’originario dipinto, la Resurrezione del Salvatore, non ben identificato e da alcuni creduto  del Brescia e dal altri del Surchi.
Dirimpetto all’altare ci sono ancora le balaustre in marmo. Ai lati dell’altare maggiore si trovano due dipinti in bianco e nero, raffiguranti uno Santa Monica e l’altro un Santo ignoto, dove un tempo, in due nicchie, erano le statue in stucco di Santa Rosa e di Santa Caterina da Siena di Andrea Ferrari e che dal 1976 si trovano nella chieda parrocchiale di Saletta.
Sui lati ci sono altri due altari. Sulla parete destra oggi si trova un dipinto raffigurante la Beata Vergine Assunta, dai colori vivaci, circondata da angioletti e racchiusa entro una cornice dorata, che sostituisce un piccolo quadro rappresentante Maria Vergine col Bambino fra le braccia e al di sotto un vago paese, opera, secondo Brisighella, del Garofalo, secondo Scalabrini, copia dello Scarsellino.
Sulla parete sinistra, oggi al posto di una statua di Santa Monica c’è un dipinto di Giovan Battista Cozza che rappresenta Santa Monica mentre prega davanti ad un altare.
Su tutte le pareti sono disegnate delle lesine a forma di colonne ioniche.
Nel soffitto un tempo vi era l’ovato rappresentante l’Anima Umana che, sciolti i lacci umani, sale al cielo, dipinta Giacomo Parolini (?) nel 1704, con alcune mezze figure di Santi e Sante Domenicani di Maurelio Scanavini, adesso invece il soffitto è privo di qualsiasi decorazione.
Completa la chiesa un campanile………..,costruito in pietra a vista, con due bifore, racchiuse in un arco a sesto tondo. Il sottogronda è cinquecentesco con decorazioni in cotto a ovuli e dardi.
Originariamente il campanile presentava una guglia che è stata demolita nel 1876.





martedì 7 novembre 2017

FERRARA - CASTELLO ESTENSE
















http://www.ferraraterraeacqua.it/it/ferrara/scopri-il-territorio/arte-e-cultura/castelli-torri-campanili/castello-estense

A Ferrara nel 1385, una pericolosa rivolta convinse Niccolò II d’Este della necessità di erigere una poderosa difesa per sé e la sua famiglia sorse così il Castello di San Michele, fortezza che ricorda il Castello di S. Giorgio a Mantova - realizzato anch'esso da Bartolino da Novara. A quel periodo risalgono la massiccia imponenza, il fossato, i ponti levatoi, le torri austere. Un passaggio coperto, ancora esistente, univa l’edificio militare al palazzo dei marchesi, oggi Palazzo Municipale. Passarono i secoli e i pericoli di sommosse cessarono. Allora il castello fu abbellito e slanciato per divenire la magnifica residenza della corte: venne arricchito dalle altane sopra le torri, dai balconi di marmo, dal cortile d'onore di linee cinquecentesche e dai fastosi appartamenti affrescati, ancor oggi visitabili all'interno del percorso museale.
Le imponenti torri, poste ai quattro angoli del Castello svettano ancora oggi sulla città, simbolo indelebile della grandezza e magnificenza della Famiglia D'Este: a sud-est la Torre Marchesana e a sud-ovest la Torre di San Paolo, a nord-ovest la Torre di Santa Caterina, a nord-est la splendida Torre dei Leoni, punto panoramico da cui ammirare la città.

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http://www.luoghimisteriosi.it/emilia_ferraracastello.html

Un castello come difesa dal proprio popolo.
Questo splendido castello, che con la sua bellezza corona la città di Ferrara, emblema di cui i ferraresi vanno fieri, fu costruito contro gli stessi cittadini. Nel 1385 la folla, stremata dalla fame e dalla povertà insorse in massa uccidendo Tommaso da Tortona, un detestato magistrato dei Giudici dè Savi. Il popolo così galvanizzato cercò di soffocare la monarchia della famiglia d’Este, padrona di Ferrara. Nicolò II nonostante fu terrorizzato per come stava mutando il destino della sua casata, ebbe la freddezza di prendere tempo e nel contempo fece costruire un castello.

Il compito fu affidato all’architetto Bartolino da Novara che iniziò i lavori inglobando la Torre dei Leoni, a nord, concludendo l’edificazione in pochissimo tempo, solo due anni. Il castello ha pianta quadrata e quattro torri quadrate angolari. Possiede un fossato ancora oggi ricolmo d’acqua... strano pensare che serviva ad allontanare il proprio popolo! 

Possedeva ogni tipo di innovativa tecnologia volta alla difesa, ponti levatoi e apparati difensivi moderni per l’epoca, questo fa pensare quanto il duca doveva essere spaventato!  


Come rocca difensiva era un vero e proprio modello e fu studiato e ammirato da molti architetti, tra i quali lo stesso Michelangelo. Subì fino ad oggi diversi restauri, il più importante avvenne in seguito ad un incendio nel 1554 e a un devastante terremoto nel 1570.

Nel 1476, quando il castello fu in mano a Ercole I e alla moglie Eleonora d’Aragona, fu internamente restaurato e impreziosito, lavoro che fu continuato dai successori che ben volentieri ingaggiarono artisti del calibro di Tiziano, Raffaello, Giovanni Bellini.
Poi con Ercole II, verso la metà del '500, il castello si trasformò definitivamente in palazzo di corte, assimilando l'aspetto che possiamo vedere ancora oggi.
Accadde il 27 ottobre 1597 che l’ultimo erede degli Estensi, Alfonso II, morì senza figli. Avvenne il caos e Ferrara fu fortemente contesa tra il cugino Cesare e il Papa Clemente VIII che riuscì a cacciare Cesare dal castello usando come arma la minaccia della scomunica, oltre che il pericolo che correva il figlio Alfonso ostaggio dello stesso pontefice. Così Cesare con tutta la sua famiglia si trasferì a malincuore a Modena non più di tre mesi dopo e non senza lasciare una piccola vendetta. Oltre a spogliare il castello di averi e ricchezze fece liberare tutti i carcerati che sicuramente avrebbero dato il benvenuto al Papa. Il castello divenne residenza di cardinali e ausiliari vaticani, ma nulla di più, mai conoscerà in futuro lo splendore e l’importanza che conobbe con gli estensi, di cui oggi naturalmente ne conserva il nome e la propria personalità.

I fantasmi dei due amanti.
 Il Castello estense conserva una triste storia d’amore accaduta nella Torre dei Leoni che vide protagonista la tragica fine di Ugo e Parisina. Nel 1418 fu celebrato il matrimonio di interesse tra Parisina Malatesta (15 anni) e Niccolò III d’Este (35 anni). Uno dei suoi figli avuto con un’altra moglie, Stella Tolomei dell’Assassino, dal nome di Ugo, di soli 14 anni, iniziò ad avere un duro rapporto di antipatia con la matrigna Parisina (dopotutto erano entrambi due ragazzini!). Niccolò preoccupato per questi continui litigi ordinò, non senza fatica, alla propria moglie di farsi accompagnare da Ugo in una visita ai genitori a Loreto. 
Purtroppo accadde che, come tutte le storie tra adolescenti, l’odio si trasformò in amore appassionato che naturalmente tennero nascosto, ma apertamente non riuscirono più a dimostrare l'odio di un tempo. Niccolò contento del cambiamento non mancò di lasciarli spesso da soli, dato che ormai si sentiva tranquillo… anzi, in occasione dello scoppio della peste nel 1418, decise di proteggere i due ragazzini facendoli soggiornare in una villa di campagna. Una vera e propria fortuna! Finalmente potevano essere soli e come due piccioncini diedero sfogo alla propria passione.  
Purtroppo, nonostante si tennero discreti, non sfuggirono agli occhi della servitù e le voci del tradimento giunsero ben presto al diretto interessato che, precipitandosi sul luogo, li sorprese in flagranza di reato. Furioso li fece imprigionare e condannare a morte. Vennero condotti nella cella della Torre dei Leoni per 12 ore, perchè dovevano essere gli ultimi di una lunga lista di omicidi che quel giorno Niccolò non esentò dal commettere. Radunò ed uccise tutte le donne adultere di Ferrara e alla fine delle esecuzioni condusse i due amanti e li decapitò sullo stesso ceppo di legno.
I loro fantasmi piangono ancora all'interno di quella cella insieme alle anime delle donne morte per causa loro.

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