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venerdì 5 luglio 2024

FERNANDA WITTGENS

 

 Articolo tratto da: https://www.famigliacristiana.it/articolo/la-storia-vera-di-fernanda-wittgens-l-arte-l-impegno-la-fede.aspx

 

La storia vera di Fernanda Wittgens, l'arte, l'impegno, la fede

29/06/2024  Ecco chi era la donna cui l'arte di Milano deve alcune delle sue opere più importanti, salvate grazie al suo impegno dalle bombe e dalla razzia nazista. Scopriamo il suo lato umano, politico, cristiano

Quando Fernanda Wittgens fu assunta alla Pinacoteca di Brera era il 1928, aveva una laurea in Lettere con lode presa nel 1926 all’Accademia scientifico letteraria, aveva insegnato nei Licei Manzoni e Parini e poi storia dell’arte al Malagugini, una scuola privata. Non erano tantissime le donne laureate all’epoca neppure nel gran Milan, la qualifica con cui fu assunta in Pinacoteca la dice lunga su tante cose: «Operaia avventizia». Un due di coppe con la briscola a bastoni, però in gamba. Caparbia e visionaria, andò lontano.

Era nata a Milano il 3 aprile del 1903 e Milano le deve moltissimo e anche i tanti visitatori che dopo l’Expo hanno riscoperto Milano come città non solo della moda ma anche dell’arte e del turismo hanno un enorme debito con questa donna poco ricordata.

Tante delle opere d’arte che ancora oggi si ammirano in città non ci sarebbero forse senza di lei, che senza badare alle qualifiche, al suo essere donna in un mondo di uomini e a tutti i paletti che la vita le ha messo davanti ha lottato, anche fisicamente organizzando e collaborandovi molti trasporti per salvare le opere di Brera, del Poldi Pezzoli e della Quadreria dell’Ospedale maggiore dalla razzia dei nazisti e, poi, dalle bombe: molto del patrimonio di Brera si salvò dal bombardamento del 1943 perché era riuscita a portarlo via per tempo. Anche il Cenacolo vinciano come lo conosciamo ora e il suo restauro sono un merito suo, dopo che nel 1950 era diventata, prima donna nel ruolo, soprintendente alle Gallerie della Lombardia. E così è merito suo la Pietà Rondanini che convinse il Comune di Milano ad acquistare, sottraendola ad altre città pretendenti.

Ma era solo una ragazza, nata in una famiglia della borghesia milanese con sette figli, cui il padre Adolfo, di origine svizzera, professore di liceo al Parini, aveva trasmesso la passione per l’arte, quando la sua avventura ebbe inizio. Fu il successo di una mostra di arte italiana a Londra a rivelare definitivamente il suo talento al direttore Ettore Modigliani, che le diede fiducia e nel 1931 la volle come vice. Quando Modigliani subì l’allontanamento forzato da Brera nel 1935, quindi il confino L’Aquila, in seguito a dissidi con un gerarca fascista, infine l’espulsione dalle cariche dello Stato per via delle leggi razziali del 1938, Fernanda Wittgens fece pubblicare con la propria firma, visto che la legge non permetteva che un ebreo firmasse una pubblicazione, il libro che Modigliani aveva scritto in esilio, Mentore. E prese di fatto il posto del suo maestro: era 1941 e infuriava la guerra.

L’impegno per l’arte, specie lombarda di cui era fine e arguta conoscitrice, e per gli esseri umani fu tutt’uno: sempre di salvare si trattava. Per l’aiuto dato alla fuga in Svizzera del professore ebreo Paolo D'Ancona, della sua famiglia e di altri ebrei che nemmeno conosceva, Fernanda Wittgens fu arrestata: alla madre scriveva lettere dalla cella ostentando serenità, ma anche rivendicando i propri ideali e il dovere di spendersi per gli altri: «E appunto perché non ho tradito la vera legge che è quella morale o sono provvisoriamente colpita. La legge dello stato si deve seguire fino a quando coincide con la legge morale, ma quando per seguirla bisogna diventare anticristiani si deve sapere disubbidire a qualunque costo». E ancora: «Quando crolla una civiltà e l’uomo diventa belva, chi ha il compito di difendere gli ideali della civiltà, di continuare ad affermare che gli uomini sono fratelli, anche se per questo dovrà... pagare ? Almeno i cosiddetti intellettuali, cioè coloro che hanno sempre dichiarato di servire le idee e non i bassi interessi, e come tali hanno insegnato ai giovani, hanno scritto, si sono elevati dalle file comuni degli uomini. Sarebbe troppo comodo essere intellettuali nei tempi pacifici e diventare codardi, o anche semplicemente neutri quando c’è pericolo».

Queste righe sono citate nell’appassionato omaggio che le dedicò al Piccolo Teatro l’11 gennaio del 1958, a sei mesi dalla morte, il critico letterario Francesco Flora che la ricordava così: «In tanta energia, in tanta capacità di attuare quel che le stava nell’animo come un gioioso dovere, Fernanda era pur sempre una creatura femminile. E bastava infatti vederla nei contatti col prossimo, tra i potenti e gli umili, capace di trovare il tono giusto, con quella virtù sempre un poco materna che è il fondo della femminilità. Era pur sempre la donna che nell’imminenza della morte, dicendo addio alla vita e alle persone più care poté scrivere: «la mia vera natura [... ] è quella di una donna a cui il destino ha dato compiti da uomo, ma che li ha sempre assolti senza tradire l’affettività femminile».

Fernanda Wittgens, scomparsa a 54 anni nel 1957, riposa tra gli illustri del civico mausoleo Palanti al Monumentale di Milano, la sua città le ha intitolato una via accanto alla Basilica di San Lorenzo e il suo nome dal 2014 figura tra i Giusti tra le nazioni, il riconoscimento dato ai gentili che si sono prodigati nel salvare ebrei durante il nazifascismo, un albero piantato a suo nome e un cippo la ricordano nel Giardino dei Giusti a Milano.

Alla sua storia sono dedicati un romanzo di Giovanna GinexRosangela Percoco, intitolato l’Allodola (Salani), deve il titolo al soprannome che le dava Modigliani - perché come l’allodola la riteneva discreta, la si notava solo quando spiccava il volo e una precendente biografia sempre id Ginex, Sono Fernanda Wittengs. Una vita per Brera (Skirà). Dalle lettere e dagli scritti di Fernanda Wittgens nel 2018 il Piccolo teatro ha ricavato una lettura scenica con Sonia Bergamasco per la regia di Marco Rampoldi, intitolata il Miracolo della cena.

 

Per approfondire: https://it.wikipedia.org/wiki/Fernanda_Wittgens

Nel 1956 rifiuta, con una lettera, la proposta di Ferruccio Parri di presentarsi alle elezioni amministrative con la lista del Fronte Laico. Significativo il passo: «Ora io non mi sento, come artista, di entrare nel binario dei partiti perché la mia libertà è condizione assoluta per la vita stessa del mio essere».

lunedì 6 maggio 2024

1943 – Dicembre 28 – Eccidio sette fratelli Cervi

 Le notizie che seguono sono state tratte da:

https://www.anpireggioemilia.it/agenda-della-resistenza/1944-29-dicembre-eccidio-7-fratelli-cervi/

1943 – Dicembre 28 – Eccidio sette fratelli Cervi 

I Cervi erano arrivati al podere di Praticello di Gattatico alla ricerca di un terreno pieno di gobbe e di buche da livellare per renderlo coltivabile, attraverso le conoscenze acquisite grazie alla “Riforma sociale” di Luigi Einaudi ed alle tante ore trascorse sui libri, nelle pause del lavoro, per imparare le moderne tecniche dell’agricoltura. Avevano le mucche, allevavano piccioni  e le api che producevano un finissimo miele. Avevano comperato il primo trattore della zona ed inoltre avevano piantato per la prima volta in Emilia, l’uva americana. Tutto questo suscitò molte gelosie nel paese, ma soprattutto l’attenzione delle autorità fasciste.

I Cervi erano sempre stati antifascisti, così come il padre Alcide e la madre Genoeffa Cocconi, donna di profonda fede cattolica; ma fu soprattutto Aldo ad infondere a tutta la famiglia le prime nozioni politiche e quindi un naturalissimo e convinto antifascismo. Con il trascorrere del tempo, divennero sempre più stretti i contatti con il movimento antifascista, così che, già dall’inizio della guerra, la loro casa divenne un rifugio per i prigionieri alleati fuggiti dai campi di prigionia. Era tra loro il russo Anatolij Tarasov, successivamente fidato compagno dei sette fratelli ed attivissimo partigiano nella Resistenza. Sfiduciato il Duce dai suoi stessi gerarchi, cadde il fascismo il 25 luglio 1943 e la famiglia Cervi organizzò una grande festa, offrendo la famosa pastasciuttata a tutta la popolazione sull’aia della casa. Nelle pentole vennero cotti dieci quintali di pasta e ai Campi rossi giunsero a mangiare i vicini, i parenti, gli amici, i paesani. La popolarità dei Cervi aveva ormai superato i confini di Gattatico e con l’arrivo dei nazisti in Emilia, la loro cantina ed il loro fienile divennero depositi per le armi dei partigiani che andavano in montagna. Anche loro, seppur per un brevissimo periodo, provarono la via dei monti, dove ebbero contatti con il parroco di Tapignola Don Pasquino Borghi, ma capirono ben presto che la Resistenza in montagna non era ancora sufficientemente organizzata. Così tornarono ai Campi rossi, poiché ritennero fosse più importante rimanere in pianura e mantenere i collegamenti con i primi nuclei partigiani che via via andavano formandosi, nascondendo le armi e diffondendo la stampa clandestina. I fascisti non tardarono però a stroncare l’intensa attività cospirativa dei Cervi, infatti all’alba del 25 novembre 1943, un plotone di militi circondò l’edificio, in parte incendiandolo ed al termine della sparatoria i sette fratelli, dopo essersi arresi, vennero catturati e condotti al carcere politico dei Servi a Reggio Emilia. Stessa sorte toccò al padre Alcide che non volle abbandonarli, al compagno partigiano Quarto Camurri  e ad alcuni ex prigionieri alleati, tra i quali Dante Castellucci che si fece passare per francese.

Alla fine la casa della famiglia venne completamente bruciata dai fascisti, con le donne ed i bambini abbandonati in strada.

Papà Cervi era ancora in cella e non fu nemmeno informato quando i suoi figli vennero condannati a morte e fucilati al poligono di tiro di Reggio, alle ore 6,30 del 28 dicembre 1943.

“Dopo un raccolto ne viene un altro, bisogna andare avanti”. Queste le parole del vecchio “Cide” quando, tornato a casa dal carcere, seppe dalla moglie Genoeffa la tragica fine dei suoi ragazzi.

Da quel giorno infatti, furono le donne dei Cervi a lavorare la terra con Alcide e con gli 11 nipoti.

Nell’immediato dopoguerra, il Presidente della Repubblica appuntò sul petto del vecchio padre sette Medaglie d’Argento, simbolo del sacrificio dei suoi figli.

Papà Cervi viaggiò in mezzo mondo, rappresentando la Resistenza italiana, partecipando alle grandi manifestazioni politiche, partigiane ed antifasciste.

Morì a 94 anni il 27 marzo 1970, salutato ai suoi funerali da oltre 200.000 persone.

La casa del Cervi è oggi uno straordinario museo della storia dell’agricoltura, dell’antifascismo e della Resistenza.

 

sabato 27 aprile 2024

PERCHE' IL 25 APRILE SI FESTEGGIA LA LIBERAZIONE

 

From: https://www.ilpost.it/2024/04/25/25-aprile-liberazione-festa-storia/

Giovedì 25 aprile 2024

Perché il 25 aprile si festeggia la Liberazione

In quel giorno del 1945 i soldati nazisti e fascisti si ritirarono da Milano e Torino, anche se la guerra continuò ancora.

Il 25 aprile in Italia si celebra la festa della Liberazione dal nazifascismo. L’occupazione tedesca e fascista in Italia non terminò in un solo giorno, ma il 25 aprile è considerato una data simbolo perché nel 1945 coincise con l’inizio della ritirata da parte dei soldati della Germania nazista e di quelli fascisti della Repubblica di Salò dalle città di Torino e di Milano, dopo che la popolazione si era ribellata e i partigiani avevano organizzato un piano coordinato per riprendere il controllo delle città.

La decisione di scegliere il 25 aprile come “festa della Liberazione” (o come “anniversario della Liberazione d’Italia”) fu presa il 22 aprile del 1946, quando il governo italiano provvisorio – il primo guidato da Alcide De Gasperi e l’ultimo del Regno d’Italia – stabilì con un decreto che il 25 aprile dovesse essere “festa nazionale”.

La data fu fissata in modo definitivo con la legge n. 269 del maggio 1949, presentata da De Gasperi in Senato nel settembre 1948. Da allora, il 25 aprile è un giorno festivo, come le domeniche, il primo maggio, il giorno di Natale e la festa della Repubblica, che ricorre il 2 giugno. La guerra in Italia non finì il 25 aprile 1945, comunque: continuò ancora per qualche giorno, fino agli inizi di maggio.

Anche altri paesi europei ricordano la fine dell’occupazione straniera durante la Seconda guerra mondiale, ma in date diverse: Paesi Bassi e Danimarca la festeggiano il 5 maggio, la Norvegia l’8 maggio, la Romania il 23 agosto. Anche in Etiopia si festeggia il 5 maggio la festa della Liberazione, ma in quel caso per ricordare la fine dell’occupazione italiana, avvenuta nel 1941.

Quello che accadde prima del 25 aprile
Nei primi mesi del 1945 c’erano diverse decine di migliaia di persone, per lo più partigiani, che combattevano contro l’occupazione tedesca e la repubblica di Salò nell’Italia settentrionale, con una discreta organizzazione dal punto di vista militare.

A sud della Pianura padana nel marzo del 1945 c’erano molti soldati occupanti che cercavano di resistere all’offensiva finale degli Alleati, che si intensificò a partire dal 9 aprile (in una zona a est di Bologna) lungo un fronte più o meno parallelo alla via Emilia. L’offensiva fu da subito un successo, sia per la superiorità di uomini e mezzi degli attaccanti che per il generale sentimento di sfiducia e inevitabilità nella sconfitta che si era diffuso tra i soldati tedeschi e i repubblichini, nonostante la volontà delle massime autorità tedesche e fasciste di continuare la guerra fino all’ultimo.

Il 10 aprile il Partito Comunista diffuse a tutte le organizzazioni locali con cui era in contatto la “Direttiva n. 16”, in cui si diceva che era giunta l’ora di «scatenare l’attacco definitivo»; sei giorni dopo il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, di cui facevano parte tutti i movimenti antifascisti e di resistenza italiani, dai comunisti ai socialisti ai democristiani e agli azionisti, cioè i membri del Partito d’Azione) emanò simili istruzioni di insurrezione generale. I partigiani organizzarono e avviarono attacchi verso i centri urbani. Bologna, ad esempio, fu attaccata dai partigiani il 19 aprile e definitivamente liberata con l’aiuto degli alleati il 21.

Il 24 aprile 1945 gli alleati superarono il Po, e il 25 aprile i soldati tedeschi e della repubblica di Salò cominciarono a ritirarsi da Milano e da Torino. A Milano, a partire dalla mattina del giorno precedente, era stato proclamato uno sciopero generale, annunciato alla radio “Milano Libera” da Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica, allora partigiano e membro del Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).

Le fabbriche furono occupate e presidiate e la tipografia del Corriere della Sera fu usata per stampare i primi fogli che annunciavano la vittoria. La sera del 25 aprile Benito Mussolini abbandonò Milano per andare verso Como (sarebbe stato poi catturato dai partigiani due giorni dopo e ucciso il 28 aprile).

I partigiani continuarono ad arrivare a Milano nei giorni tra il 25 e il 28, sconfiggendo le residue e limitate resistenze. Una grande manifestazione di celebrazione della liberazione si tenne a Milano il 28 aprile. Gli americani arrivarono nella città il primo maggio.

Le prime pagine dei quotidiani il 25 aprile 1945
I giornali italiani celebrarono il 25 aprile 1945 come un giorno importante nella guerra: non solo l’Unità e Il Popolo, giornali ufficiali del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana che si stampavano nelle parti d’Italia già liberate da tempo, ma anche il Corriere della Sera, che durante il ventennio fascista era stato vicino al regime.

Il 26 aprile il Corriere uscì con una sorta di “numero unico” con la testata Il Nuovo Corriere: direttore dell’edizione fu Mario Borsa, un giornalista antifascista a cui il CLN affidò temporaneamente la direzione del giornale. Solo i titoli di prima pagina della Stampa del 26 aprile ignorarono completamente i combattimenti nell’Italia settentrionale: parlavano invece della “fanatica resistenza” dei soldati tedeschi in Germania, che ormai controllavano solo qualche quartiere di Berlino.

 

 

 

 

giovedì 25 aprile 2024

MARCONI GUGLIELMO

 MARCONI GUGLIELMO

BOLOGNA 25 APRILE 1874  -  ROMA 20 LUGLIO 1937

25 APRILE 2024 : 150 ANNI DALLA NASCITA 

I RAPPORTI DEL GRANDE SCIENZATO CON IL REGIME FASCISTA.

https://it.wikipedia.org/wiki/Guglielmo_Marconi 

Marconi e il fascismo

Marconi partecipò, in divisa nera, a un'unica seduta del Gran consiglio del fascismo, in occasione della proclamazione dell'Impero italiano

La questione dell'adesione di Marconi al fascismo è molto complessa ed è tuttora oggetto di studio. Certamente fu fortemente corteggiato, fin dall'inizio, dal regime,[19] come d'altronde lo era stato dai governi precedenti, e decise di aderire, non tanto per i posti di rilievo negli organi nazionali, che arrivarono in seguito, quanto per lo spirito patriottico che rappresentava in principio. I fascisti, influenzati dal futurismo, avevano esaltato la figura e l'opera di Guglielmo Marconi come espressione del genio italiano, tanto che Mussolini, già in un discorso tenuto a Trieste il 6 febbraio 1921, aveva affermato: "L'Italia è l'ala tricolore di Ferrarin, l'onda magnetica di Marconi, la bacchetta di Toscanini, il ritorno a Dante nel sesto centenario della sua dipartita." Nel 1923, su impulso del governo, nacque l'Unione Radiofonica Italiana (antesignana dell'EIAR e della RAI) dalla fusione delle filiali italiane della britannica Marconi Company (Radiofono) e della American Marconi (SIRAC). Fu nominato presidente Enrico Marchesi, proveniente dalla FIAT, mentre il vice-presidente era Luigi Solari, persona molto vicina agli interessi di Guglielmo Marconi.

Pesano negativamente sull'immagine di Marconi discorsi come "Rivendico l'onore di essere stato in radiotelegrafia il primo fascista, il primo a riconoscere l'utilità di riunire in fascio i raggi elettrici, come Mussolini ha riconosciuto per primo in campo politico la necessità di riunire in fascio le energie sane del Paese per la maggiore grandezza d'Italia".[20] Benito Mussolini, in un discorso al Senato del 9 dicembre 1937, affermò: "Nessuna meraviglia che Marconi abbracciasse, sin dalla vigilia, la dottrina delle Camicie Nere, orgogliose di averlo nei loro ranghi".[21] In occasione della 19ª riunione della Società Italiana per il Progresso delle Scienze, che si tenne dal 7 al 15 settembre 1930 congiuntamente a Bolzano e a Trento, iniziò il suo discorso inaugurale con le parole: "Il mio saluto è esultante per il compiacimento di trovarmi tra i fratelli del Trentino in una grande manifestazione prettamente italiana che si svolge sul suolo riconquistato alla grande Madre sotto la guida del Re vittorioso, mentre il segnacolo della Patria sventola sicuro sul Brennero e al compimento dei nostri destini presiede e provvede la mente vigile e allerte del Duce".[22]

Al di là di queste affermazioni pubbliche, i rapporti fra il Duce e l'inventore non furono tuttavia semplici, soprattutto verso la fine, quando Marconi tentò di convincerlo invano a non pensare a una guerra contro il Regno Unito. Marconi morì proprio alla vigilia di un incontro col Duce a questo proposito. Inoltre, visto l'uso nella propaganda di guerra che i regimi fascisti e totalitari fecero della radio, pare che Marconi abbia detto della sua invenzione: "Ho fatto del bene al mondo o ho aggiunto una minaccia?"[23]

 

https://www.firstonline.info/marconi-fascista-certamente-si-ma-resta-lo-steve-jobs-dellottocento-e-il-galles-poteva-svegliarsi-prima/ 

Marconi fascista? Certamente sì, ma resta lo Steve Jobs dell’Ottocento e il Galles poteva svegliarsi prima

Il sindaco di Cardiff ha negato il visto a una statua in onore di Guglielmo Marconi, il geniale inventore della radio, sostenendo che ai suoi tempi era stato fascista e che discriminava gli accademici ebrei. Due macchie indelebili anche per un grande scienziato che non va venerato acriticamente ma nemmeno condannato alla damnatio memoriae per i suoi indiscutibili errori

Marconi fascista? Certamente sì, ma resta lo Steve Jobs dell’Ottocento e il Galles poteva svegliarsi prima

L’ultima vittima della Brexit si chiama Guglielmo Marconi. Il comune di Cardiff gli ha negato il visto, e il monumento che era stato progettato in suo onore, una radio alta quattro metri del valore di oltre un milione di sterline, non si farà. Motivo, la sua adesione al fascismo e l’esclusione di scienziati ebrei dall’Accademia d’Italia di cui era presidente. Il sindaco gallese ha assolutamente ragione, ed è padronissimo di non dedicargli monumenti nella sua città. Del resto, non si tratta nemmeno, a rigore, di “cancel culture”, perché qui non si abbatte a picconate una statua già esistente, ma si rinuncia a costruirne una nuova e molto costosa, in tempi di ristrettezze dei bilanci pubblici. Semmai gli si potrebbe obiettare che doveva svegliarsi prima: che del regime di Mussolini Marconi fosse un sostenitore convinto della prima ora, nonché gerarca di rango, lo sanno tutti. È altrettanto vero che nel sottoporre al Duce le liste di candidati all’Accademia annotava di suo pugno la lettera “e” accanto ad alcuni nomi, per segnalarne l’origine ebraica, come ho scritto e documentato nel mio libro “Wireless. Scienza, amori e avventure di Guglielmo Marconi (Garzanti, 2013).

Sono due macchie indelebili nella biografia di un grande uomo e di un grande inventore. Possiamo perdonargliele, in cambio dei tanti suoi meriti, delle tante cose per cui l’umanità gli è debitrice – non solo la radio, ma tutte le meraviglie della rivoluzione digitale, dal Wi-fi al cellulare? La risposta, ovviamente, è no. Non ci sono giustificazioni.

 

 https://www.scienzainrete.it/italia150/guglielmo-marconi

Guglielmo Marconi (Bologna, 1874 – Roma, 1937) è forse il più grande  inventore che l’Italia unita abbia avuto. Ma, contrariamente a quanto si crede, è anche un buon fisico. In ogni caso è un ottimo organizzatore e imprenditore.

Guglielmo Marconi nasce a Bologna da un ricco proprietario terriero, Giuseppe, e da un’irlandese, Anne Jameson, a sua volta figlia di un distillatore di whiskey. Riceve in casa la sua istruzione primaria. Ma anche in seguito frequenta le scuole piuttosto saltuariamente, prima a Firenze poi a Livorno.

Riceve, però, lezioni private e si appassiona alla fisica. La conoscenza, poi, di un anziano telegrafista, lo indirizza verso questo tipo di applicazioni. Lo studio è di tipo sperimentale. Ma Guglielmo frequenta sia la migliore letteratura scientifica internazionale (conosce l’inglese molto bene) sia scienziati del calibro di Augusto Righi, impegnato a confermare in via sperimentale la teoria elettromagnetica della luce di Maxwell. È così che matura l’idea di un “telegrafo senza fili”, ovvero di utilizzare le onde elettromagnetiche per inviare segnali a distanza.

Durante l’inverno 1894 mise a punto un apparato e nella primavera del 1895 organizzò un esperimento destinato a diventare famoso: la trasmissione mediante onde radio di un segnale a distanza. È l’esperimento del “colpo di fucile”, sparato dal fratello per avvisarlo di aver ricevuto il segnale inviato dalla soffitta di Villa Griffone di Pontecchio, residenza di campagna dei Marconi, oltre la Collina dei Cappuccini.

La trasmissione di segnali a distanza per via elettromagnetica funziona. Marconi ha messo a punto un dispositivo radio. Inutilmente cerca di ottenere l’appoggio delle autorità italiane per perfezionare l’invenzione. Così, incoraggiato dalla madre, si trasferisce in Inghilterra. Le Poste inglesi sono molte interessate. E Marconi mette a punto un esperimento per la trasmissione di segnali radio a 14 chilometri di distanza. E lo brevetta.

Il perfezionamento del dispositivo procede così a ritmi rapidissimi. E culmina il 12 dicembre 1901 nella prima trasmissione radio transatlantica, tra Poldhu, in Cornovaglia, e Signal Hill, a Terranova. Una trasmissione ritenuta impossibile da fisici e matematici. Per fortuna di Marconi gli strati ionizzati dell’alta atmosfera consentono la riflessione dei segnali elettromagnetici e, dunque, il superamento della curvatura terrestre.

La telegrafia senza fili può funzionare anche a grandissime distanze. Per molti anni ancora Marconi perfezionerà i suoi apparati radio e ne diventerà il primo imprenditore. Intanto nel 1909 riceve il premio Nobel per la Fisica.

La priorità dell’invenzione della radio è stata contestata. La Corte Suprema degli Stati Uniti nel 1943 la attribuirà a Nikola Tesla. Ma la scoperta, nel resto del mondo, continuerà a essere attribuita a Marconi.

Tornato in Italia, nel 1929 Guglielmo Marconi viene nominato alla Presidenza del Consiglio nazionale delle Ricerche dopo la destituzione, a opera del regime fascista, del matematico Vito Volterra. La sua vicinanza, anche ideologica, al fascismo è inoppugnabile. E il regime la sfrutta a fini propagandistici.

Ma la sua bravura di inventore è altrettanto innegabile e inesausta. Ancora nel 1936 ha un ruolo da protagonista nelle prime trasmissioni televisive, a opera della BBC.

La mia lunga esperienza mi ha insegnato a non credere a limitazioni fondate su conoscenze puramente teoriche e matematiche le quali, come è noto, sono spesso basate su cognizioni imperfette di tutti i fattori che entrano in gioco. Ho sempre ritenuto opportuno seguire i nuovi indirizzi di ricerca, anche quando questi sembravano, a prima vista, poco promettenti di buoni risultati (Guglielmo Marconi)

 

 

https://www.treccani.it/enciclopedia/guglielmo-marconi_(Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Scienze)/ 

 

Guglielmo Marconi
Guglielmo Marconi nel 1908

Senatore del Regno d'Italia
Durata mandato30 aprile 1914 –
20 luglio 1937
Tipo nominaCategoria 20 (coloro che con servizi o meriti eminenti hanno illustrata la Patria)
Sito istituzionale

Dati generali
Partito politicoPartito Nazionale Fascista
Professionescienziato, imprenditore
FirmaFirma di Guglielmo Marconi
Informazioni
Guglielmo Giovanni Maria Marconi è stato un inventore, imprenditore e politico italiano. A Guglielmo Marconi si deve lo sviluppo di un efficace sistema di telecomunicazione a distanza via onde radio, ... Wikipedia
Nascita: 25 aprile 1874, Palazzo Marescalchi, Bologna
Morte: 20 luglio 1937, Roma
Coniuge: Maria Cristina Bezzi-Scali (s. 1927–1937), Beatrice O'Brien (s. 1905–1924)
Luogo di sepoltura: Museo Marconi

sabato 20 aprile 2024

CERTOSA DI FERRARA - FABBRI ROBERTO

 CERTOSA DI FERRARA - CIMITERO MONUMENTALE  

FABBRI ROBERTO


 












giovedì 18 aprile 2024

CERTOSA DI FERRARA - MONUMENTO SEPOLCRALE DI ALFRED LOWELL PUTNAM

 CERTOSA DI FERRARA - CIMITERO MONUMENTALE 

MONUMENTO SEPOLCRALE DI ALFRED LOWELL PUTNAM 


 

IN MEMORIA DI

ALFRED LOWELL PUTNAM

CHE DI PASSAGGIO PER QUESTA CITTA'

COLPITO DA MORBO CRUDELE

MORIVA IMPROVVISAMENTE






CERTOSA DI FERRARA - TOMBA DEL MARCHESE GUIDO VILLA LANCELLOTTI

 CERTOSA DI FERRARA - CIMITERO MONUMENTALE

 

TOMBA DEL MARCHESE GUIDO VILLA LANCELLOTTI

 




 
 

martedì 2 aprile 2024

FERRARA - OSTAGGI 19 FEBBRAIO 1849

 FERRARA - OSTAGGI 19 FEBBRAIO 1849

Già pubblicato, con lo stesso titolo, un post in data 29 dicembre 2011.

Dopo la caduta di Napoleone, il Congresso di Vienna (1814 - 1815) impone la
restaurazione dei vecchi Stati. Ferrara si ritrova nuovamente sotto lo Stato Pontificio,
terra di confine col Lombardo - Veneto, segnato dal Po, e contemporaneamente è
obbligata ad ospitare e mantenere una folta guarnigione austriaca, forte di uomini e di
armi, arroccata nella Fortezza.
Nonostante le riforme e le innovazioni portate da Napoleone siano state abolite, non
sono state dimenticate: anche a Ferrara si diffondono, pertanto, idee rivoluzionarie.
Numerosi ferraresi, in accordo con i carbonari del Veneto, della Lombardia e del
Regno di Napoli ed in stretto contatto con i carbonari bolognesi, romagnoli e
marchigiani, partecipano all'attività carbonara, iniziata a funzionare organicamente
fin dal 1817.

All'inizio del 1818 viene scoperta una prima associazione carbonara guidata dal
marchese Giovan Battista Canonici: il marchese è arrestato, condannato al carcere
duro prima a Venezia, poi a Lubiana dove muore nel 1821. Verso la fine del 1818, in
seguito ad alcune confessioni del cancelliere Antonio Villa, altri carbonari ferraresi,
pur più prudenti nell'azione, vengono scoperti ed arrestati.
Con i moti carbonari del 1820 – 21 si chiude anche a Ferrara il primo periodo della
rivoluzione italiana.
Nel 1846, contro il volere del Metternich, viene eletto a pontefice Pio IX, che impone
un regime più liberale di quello dei suoi predecessori. Egli, infatti, concede un'ampia
amnistia ai condannati politici, una moderata libertà di stampa e di adunanza;
istituisce la Consulta di Stato e nel luglio del 1847 la Guardia Civica.
La promulgazione di tali leggi “liberali” riaccende anche a Ferrara il fervore
patriottico, contrastato dagli Austriaci che, abbandonata la Fortezza, decidono di
occupare la città, entrandovi nella mattina del 17 luglio 1847.

La protesta pubblica del legato cardinale Luigi Ciacchi contro gli Austriaci, accolta
dal Papa, fornisce l'occasione per movimenti di sommossa e manifestazioni
patriottiche in tutta Italia: il sentimento popolare diventa sempre più ostile nei
confronti dell'Austria.

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Da Ferrara il 12 aprile 1848 parte la Compagnia dei Bersaglieri del Po, costituita dal
conte Tancredi Trotti Mosti, già colonnello della Guardia Civica. Ricevuta la bandiera
bianco-gialla con le insegne pontificie benedetta dal Cardinale Arcivescovo e salutata
in piazza dalla popolazione, la Compagnia, formata da numerosi giovani e meno
giovani, di diverse classi sociali, tutti volontari e convinti delle nuove idee di libertà
ed indipendenza, attraversato il fiume Po, si dirige prima a Vicenza, poi alla fine di
aprile sul fiume Piave. 

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Malgrado il valore dei Bersaglieri, la battaglia è perduta. La resa è inevitabile, ma ai
vinti viene concesso l'onore delle armi. Le perdite dei Bersaglieri sono rilevanti, circa
il 30% della loro forza, tra morti, feriti e prigionieri. La loro bandiera, ora custodita
nel Museo del Risorgimento di Ferrara, è stata decorata di medaglia al valor militare
“per la valorosa condotta tenuta nei combattimenti di Cornuda, di Monte Berico e
nella difesa di Vicenza”.
La 1° guerra d'indipendenza si conclude nel 1848 con la vittoria degli Austriaci nella
battaglia di Custoza (25 luglio) e l'armistizio Salasco (7 agosto).

Benché la sconfitta di Custoza (25 luglio) e l'armistizio Salasco (7 agosto) abbiano
posto fine alla Prima Guerra d'Indipendenza, all'interno dello Stato Pontificio si
hanno nuovi fermenti che portano alla fuga di Pio IX a Gaeta sotto la protezione del
re di Napoli (25 novembre) ed alla nascita di un governo democratico.

........

........

Il 17 gennaio 1849 anche nella Legazione pontificia di Ferrara, caduto il potere
temporale, sono indette le elezioni democratiche dei rappresentanti che devono
partecipare all'Assemblea Costituente della Repubblica Romana. Nello stesso giorno
il prolegato, prima di lasciare Ferrara, affida il governo della città ad una
commissione di tre cittadini, tra i quali Carlo Mayr, che dopo alcuni giorni viene
eletto presidente della Provincia di Ferrara.
L'attività rivoluzionaria mazziniana, basata sui principi di indipendenza ed unità,
prende nuovo vigore. Il 9 febbraio 1849 a Ferrara compaiono i manifesti della
Repubblica Romana che riportano l'articolo 3 della Costituente: “Il governo dello
Stato romano sarà democrazia pura”, ma l'attività mazziniana viene presto repressa e
la città vede ancora un trionfo austriaco che getta nello sconforto i patrioti.
A causa di un tumulto popolare, infatti, cadono uccisi tre soldati austriaci e ferito un
ufficiale; tutti i militari austriaci si rifugiano nella Fortezza. La città sembra libera e
sicura. Ma nella mattinata del 18 febbraio il generale Haynau, comandante il secondo
corpo riserve austriache, superato il Po con circa 6 mila fanti, uno squadrone di
cavalleria, 22 cannoni ed una batteria di fanti, ordina alla città la resa, la consegna
degli uccisori dei soldati austriaci oppure sei ostaggi scelti fra i più ragguardevoli
cittadini. Inoltre l'Austria esige il pagamento di una penale nelle mani del v
ice
console imperiale di Ferrara, certo Bertuzzi, di duecentoseimila scudi.

Il 19 febbraio 1849 una delegazione cittadina presieduta dal Cardinale Cadolini
incontra il generale Haynau, ma non ottiene nessun cambiamento alle dure
condizioni. Più tardi il console inglese Mc Alister tenta una nuova mediazione, ma le
imposizioni del Feld Maresciallo Radetzky sono tassative per cui è un successo
ottenere quattro ore di proroga al minacciato bombardamento della città.

Allora cittadini eminenti, fra i quali il fratello dell'Arcivescovo Cadolini,
volontariamente si offrono in ostaggio al comando austriaco a garanzia del
pagamento della somma richiesta, di importo irraggiungibile, consegnata, comunque,
in buona parte nello stesso giorno. Si concorda di pagare a rate la rimanente parte.
Il 20 febbraio 1849 il gonfaloniere di Ferrara Eugenio Righini ordina di affiggere un
proclama di encomio alla cittadinanza per il contributo ed i mezzi prestati a
soddisfare le pretese austriache, nonché per rendere pubblici i nomi dei sei generosi
cittadini rinchiusi nella fortezza come ostaggi.
Gli ostaggi vengono, poi, trasferiti nelle prigioni di Padova, dove sono trattenuti per
quattro giorni, quindi in quelle più sicure di Verona. Vengono liberati solo nel maggio
1849.
Dopo la caduta della Repubblica Romana, avvenuta nello stesso anno, a Ferrara,
come in tutta la penisola, le organizzazioni rivoluzionarie si indeboliscono
fortemente.
Dopo la caduta della Repubblica Romana del 1849 a causa dell'intervento di
Napoleone III che, in deroga ad un articolo della costituzione francese, ristabilisce
l'ordinamento pontificio, Ferrara ritorna sotto il governo del papa Pio IX e il controllo
delle truppe austriache occupanti la Fortezza.
Nella città, tuttavia, una minoranza eroica e tenace prosegue l'opera interrotta dagli
eventi del 1849 per la nascita di un'Italia libera ed unita.

        

       RICORDANZA E GRATITUDINE
                         ETERNA
AI NOSTRI NON MAI ABBASTANZA LODATI
                    CONCITTADINI

AVV.
 
 
COL.
 
DOTT.
GIUSEPPE      AGNELLI
GIUSEPPE      CADOLINI
GIROLAMO      CANONICI
IPPOLITO      GUIDETTI
MASSIMILIANO      STROZZI
ANT.    FRANC.    TROTTI


CHE SPONTANEI SI DIEDERO IN OSTAGGIO
PER SALUTE DELLA PATRIA
IL GIORNO 19 FEBBRAIO 1849





Le foto sono del NonnoKucco.

Le notizie sono tratte dal sito: http://www.isco-ferrara.com/wp-content/uploads/2018/01/Le-lapidi-raccontano-il-Risorgimento.pdf

Altre notizie: https://www.spreaker.com/episode/19-febbraio-1849-ostaggi-per-la-difesa-della-citta-accadeoggi-s01e14--22918781

Il 5 febbraio 1848 nasce la Repubblica Romana e ciò si ripercuote anche su Ferrara, il prolegato pontificio abbandona la città e il potere passa nelle mani di tre cittadini, tra i quali Carlo Mayr. Il movimento viene represso dagli austriaci ma, successivamente, un tumulto popolare provoca la morte di tre militari e l'esercito si rifugia nella fortezza. Nella mattinata del 18 febbraio il generale Haynau attraversa il Po e ordina alla città la resa, la consegna degli uccisori dei soldati austriaci o di sei ostaggi tra i cittadini illustri. Questi ultimi verranno liberati solo nel Maggio successivo e sono ricordati attraverso una lapida affissa sulla Cattedrale di Ferrara. Sono: Avv. Giuseppe Agnelli; Giuseppe Cadolini; Girolamo Canonici; Col. Ippolito Guidetti; Massimiliano Strozzi; Dott. Antonio Francesco Trotti. Spontanei si diedero in ostaggio il giorno 19 febbraio 1849.

In collaborazione con Istituto di Storia Contemporanea di Ferrara 

 

 

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sabato 30 marzo 2024

CASA MUSEO - GIACOMO MATTEOTTI - 10 giugno 1924


Casa - Museo  Giacomo Matteotti

La Casa-Museo Giacomo Matteotti è stata istituita con la Legge 255/2004 ed è riconosciuta di importante interesse culturale (ai sensi dell’art.10 comma 3 lettera d del Codice dei Beni Culturali) come luogo di memoria che mantiene inalterate le tracce originarie della vita quotidiana di un protagonista della storia del Novecento e della sua famiglia.
Giacomo Matteotti è vissuto in questo edificio, nel quale continuarono a risiedere dopo la sua morte la madre Isabella Garzarolo, la vedova Velia Titta e i figli Giancarlo, Matteo e Isabella. Radicalmente restaurata in base al dettato della predetta legge 255/2004, la casa è ora di proprietà dell’Accademia dei Concordi per legato testamentario dei figli, mentre la gestione, in base ad una convenzione stipulata con l’ente proprietario il 26/6/2010, spetta al Comune di Fratta Polesine, che l’ha aperta al pubblico nel 2012. Con delibera n. 87 del 13/6/2006 il Comune di Fratta l’ha dotata di un Comitato scientifico al quale sono stati attribuiti compiti di indirizzo e di controllo e successivamente, con delibera n. 7 del 21/3/2012, di un Regolamento, che prevede la figura di un Direttore. Tutti gli incarichi sono a titolo gratuito. Una convenzione stipulata nel 2016 con il Dipartimento di Storia dell’Università di Padova (DiSSGeA) assicura alla Casa-Museo i necessari collegamenti scientifici e accademici.

Il portoncino laterale riporta in rilievo il simbolo con motto scelto da Giacomo Matteotti anche per la sua carta intestata Foris pugnae, intus timores (lotte di fuori, apprensioni dentro di noi) ripreso dal Nuovo Testamento, seconda lettera ai Corinzi, 7,5.

L’immobile figura nel Catastico veneto (1775) come un fabbricato a due piani il cui fronte sud è caratterizzato da un ingresso centrale e da due finestre su entrambi i lati e ad est, sul fianco contiguo alla strada, presenta due finestre sui due livelli del fabbricato.
I successivi catasti napoleonico (1808-1810) ed austriaco (poi austro-italiano) individuano un immobile frazionato in tre parti, ciascuna delle quali con un’area scoperta di competenza.
Girolamo Matteotti, padre di Giacomo, diventa unico proprietario dell’immobile nel 1895.
Si può datare ai primi decenni del Novecento l’ampliamento dell’edificio stesso a ovest con la loggia costituita da pilastri in calcestruzzo, usata per deposito di attrezzi (ora ingresso alla Casa-Museo), e con la costruzione di una terrazza con balaustra decorata, sempre in calcestruzzo, al primo piano.
Le caratteristiche architettoniche sono quelle di una villa di campagna: organizzazione tripartita degli ambienti, costituita dal salone centrale, dalle stanze ubicate nelle ali laterali e dal vano scala di collegamento tra i piani. I tre livelli dell’edificio sono scanditi dalle finestre dei vari piani, presenti con aperture ottagonali o rettangolari anche nel piano secondo-sottotetto, su tutti i lati del fabbricato.
L’uso della pietra è presente nella facciata a sottolineare l’apertura ad arco a tutto sesto della porta a piano terra e al primo piano che apre su un terrazzino, nonché sui davanzali delle finestre dei fronti nord e sud.
Con il lavoro di restauro sono stati inseriti, ad ovest del corpo centrale, le scale di sicurezza e l’ascensore. Tutti i prospetti sono distinti da una cornice grecata realizzata con elementi prefabbricati in calcestruzzo, posta in corrispondenza del solaio del piano secondo a fungere da marcapiano. Il tetto a padiglione presenta una cornice di mattoni intonacata che forma una decorazione di coronamento superiore. Sui fronti nord e sud emergono i quattro camini principali.

Il parco, con il viale di accesso alla Casa-Museo, è vincolato per il suo valore memoriale di paesaggio rurale e presenta sul lato sinistro piante autoctone (pioppi cipressini, platani) mentre sul lato opposto piante alloctone (pini, abeti, sequoie).

In questa casa, Giacomo vive con i genitori, la moglie Velia Titta (1890-1938) sposata con rito civile a Roma nel 1916 e con i figli nati dalla loro unione, Giancarlo (1918-2006), Matteo (1921-2000), entrambi politici nelle file del socialismo democratico, ed Isabella (1922-1994).
Nel salone centrale al pianterreno fu allestita la camera ardente di Giacomo Matteotti, dopo l’arrivo in treno della sua bara alle prime luci dell’alba del 21 agosto 1924 e da qui è partito il corteo funebre fino al cimitero locale, dove è stato sepolto.
La Casa-Museo è sede dell’annuale cerimonia di commemorazione dell’assassinio di Giacomo Matteotti, di una mostra documentaria, fotografica e giornalistica (anche in formato digitale) relativa alla vita e alla tragica morte del deputato, nonché di manifestazioni pubbliche, atte ad approfondire la conoscenza di questo protagonista della storia italiana del primo Novecento, paladino della democrazia, della libertà di pensiero, della giustizia sociale.

La Casa è dotata di attrezzature multimediali che consentono al visitatore di avvicinare da molteplici punti di vista la figura di Matteotti e l’ambiente in cui visse. Il visitatore, inoltre, può utilizzare un tavolo interattivo che permette di leggere tutti gli scritti di Matteotti, i suoi discorsi politici, numerose testate giornalistiche dell’epoca e documenti sulle condizioni del Polesine tra Ottocento e Novecento.

Con la legge 213/2017 la Casa è stata elevata a Monumento nazionale.

E’ riconosciuta come Museo di rilevante interesse regionale in base all’art.7 della legge 50/1984 della Regione Veneto.

Maria Lodovica Mutterle

(…) Rientrare in queste stanze dove ho passato con te le prime emozioni, mi dà una grande melanconia che non posso ancora vincere. Mi sembra sempre di vederti in tinello o nell’orto e di poterti aspettare come allora. I bambini mi domandano continuamente dove tu sei (…)
Lettera di Velia a Giacomo, Fratta Polesine, 16 maggio 1923

 Notizie tratte da:

https://www.casamuseogiacomomatteotti.it/

da consultare per ulteriori notizie.

 

FOSSE ARDEATINE - 23 marzo 1944

 

L’ATTENTATO PARTIGIANO

Il 23 Marzo 1944 – giorno del 25° anniversario della fondazione del Partito Fascista di Mussolini – 17 partigiani dei Gruppi d’Azione Patriottica (GAP) guidati da Rosario Bentivegna fecero esplodere un ordigno in Via Rasella, a Roma, proprio mentre passava una colonna di militari tedeschi.

I partigiani, che erano legati al movimento clandestino comunista italiano, riuscirono poi ad evitare la cattura disperdendosi tra la folla che si era radunata sul luogo dell’attentato. L’unità militare che era stata presa di mira - un battaglione appartenente all’Undicesima Compagnia, il Reggimento di Polizia Bozen - era composto per la maggior parte da militari di lingua tedesca provenienti dalla zona del Sud Tirolo, precedentemente appartenuta all’Austria, poi annessa all’Italia con il trattato di St. Germain nel 1919 e infine passata sotto il controllo della Germania quando i Tedeschi avevano occupato l’Italia, nel 1943.

Nell’attentato ventotto soldati morirono immediatamente; altri 5 nei giorni seguenti. Il bilancio finale fu poi di 42 militari uccisi e di alcuni feriti tra i civili presenti al momento dell’attentato.

LA RAPPRESAGLIA

La sera del 23 marzo, il Comandante della Polizia e dei Servizi di Sicurezza tedeschi a Roma, tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, insieme al comandante delle Forze Armate della Wermacht di stanza nella capitale, Generale Kurt Mälzer, proposero che l’azione di rappresaglia consistesse nella fucilazione di dieci italiani per ogni poliziotto ucciso nell’azione partigiana, e suggerirono inoltre che le vittime venissero selezionate tra i condannati a morte detenuti nelle prigioni gestite dai Servizi di Sicurezza e dai Servizi Segreti. Il Colonnello Generale Eberhard von Mackensen, comandante della Quattordicesima Armata - la cui giurisdizione comprendeva anche Roma - approvò la proposta.

Si racconta che quando a Hitler venne comunicata la notizia dell’uccisione dei militari, quella sera, egli reagì ordinando la distruzione totale di Roma. Successivamente, gli imputati accusati del massacro, dopo la guerra, testimoniarono come Hitler avesse perlomeno espresso parere pienamente favorevole al piano di Kappler e Mälzer. Tuttavia, altre prove storiche portano a pensare che Hitler abbia perso presto interesse per tutta la questione, lasciando la decisione finale al Colonnello Generale Alfred Jodl, in quel momento Comandante del Personale Operativo degli Alti Comandi delle Forze Armate (Oberkommando der Wehrmacht, or OKW).

Qualunque fosse il livello di coinvolgimento da parte di Hitler, il Maresciallo Albert Kesselring, Comandante in Capo dell’Esercito schierato a Sud, presumibilmente interpretò la reazione iniziale di Hitler come segno del suo appoggio e della sua autorizzazione alla rappresaglia proposta subito dopo l’attentato.

 

LE VITTIME DELLE FOSSE ARDEATINE

Il giorno seguente, 24 marzo 1944, militari della Polizia di Sicurezza e della SD in servizio a Roma, al comando del Capitano delle SS Erich Priebke e del Capitano delle SS Karl Hass, radunarono 335 civili italiani, tutti uomini, nei pressi di una serie di grotte artificiali alla periferia di Roma, sulla via Ardeatina. Le Fosse Ardeatine, che originariamente facevano parte del sistema di catacombe cristiane, vennero scelte per poter eseguire la rappresaglia in segreto e per occultare i cadaveri delle vittime.

Priebke e Hass avevano ricevuto l’ordine di selezionare le vittime tra i prigionieri che erano già stati condannati a morte, ma il numero di prigionieri in quella categoria non arrivava ai 330 necessari alla rappresaglia.

Per questa ragione, gli ufficiali della Polizia di Sicurezza selezionarono altri detenuti, molti dei quali arrestati per motivi politici, insieme ad altri che o avevano preso parte ad azioni della Resistenza, o erano semplicemente sospettati di averlo fatto. I Tedeschi aggiunsero al gruppo già selezionato per il massacro anche 75 prigionieri ebrei, molti dei quali erano detenuti nel carcere romano di Regina Coeli. Per raggiungere la quota necessaria, essi rastrellarono anche alcuni civili che passavano per caso nelle vie di Roma. Il più anziano tra gli uomini uccisi aveva poco più di settant’anni, il più giovane quindici.

Quando le vittime vennero radunate all’interno delle cave, Priebke e Hass si accorsero che ne erano state selezionate erroneamente 335 invece che le 330 previste dall’ordine di rappresaglia. Le SS però decisero che rilasciare quei 5 prigionieri avrebbe potuto compromettere la segretezza dell’azione e quindi decisero di ucciderli insieme agli altri.

L’ECCIDIO ALL’INTERNO DELLE FOSSE ARDEATINE

I prigionieri selezionati furono condotti all’interno delle grotte con le mani legate dietro la schiena. Già prima di raggiungere il luogo dell’esecuzione, Priebke e Hass avevano deciso di non utilizzare il metodo tradizionale del plotone di esecuzione; invece, agli agenti incaricati dell’eccidio venne ordinato di occuparsi di una vittima alla volta e di spararle da distanza ravvicinata, in modo da risparmiare tempo e munizioni. Gli ufficiali della polizia tedesca portarono quindi i prigionieri all’interno delle fosse, obbligandoli a disporsi in file di cinque e a inginocchiarsi, uccidendoli poi uno a uno con un colpo alla nuca.

Mentre il massacro continuava, i militari tedeschi cominciarono a obbligare le vittime a inginocchiarsi sopra i cadaveri di quelli che erano già stati uccisi per non sprecare spazio.

Quando il massacro ebbe termine, Priebke e Hass ordinarono ai militari del genio di chiudere l’entrata delle fosse facendola saltare con l’esplosivo, uccidendo così chiunque fosse riuscito per caso a sopravvivere e seppellendo allo stesso tempo i cadaveri.

Notizie tratte da:

https://encyclopedia.ushmm.org/content/it/article/ardeatine-caves-massacre

 Altre notizie:

https://it.wikipedia.org/wiki/Eccidio_delle_Fosse_Ardeatin

Il Mausoleo:

https://www.mausoleofosseardeatine.it/mausoleo/mausoleo-2/ 

BUOZZI BRUNO

 

 

BUOZZI BRUNO


 

Nato a Pontelagoscuro (Ferrara) il 31 gennaio 1881, ucciso dai tedeschi a La Storta (Roma) il 4 giugno 1944, dirigente sindacale socialista.

Era stato costretto a lasciare la scuola dopo le elementari e fece, da ragazzo, il meccanico aggiustatore. Quando si trasferì a Milano, trovò lavoro come operaio specializzato alle Officine Marelli e poi alla Bianchi. Nel 1905 aderì al sindacato degli operai metallurgici e al PSI, militando nella frazione riformista di Turati. Nel 1920 fu tra i promotori del movimento per l'occupazione delle fabbriche. Più volte eletto deputato socialista prima della presa del potere da parte del fascismo, Bruno Buozzi nel 1926 espatriò in Francia, dove continuò, nella Concentrazione antifascista, l'attività unitaria contro il regime di Mussolini.
Durante la guerra di Spagna, per incarico del suo partito, diresse l'opera d'organizzazione, raccolta e invio di aiuti alla Repubblica democratica attaccata dai franchisti. Alla vigilia dell'occupazione tedesca di Parigi, Buozzi si trasferì a Tours. Lo tradì il comprensibile desiderio di visitare, a Parigi, la figlia partoriente. Nel febbraio del 1941 fu, infatti, arrestato dai tedeschi nella Capitale francese. Rinchiuso dapprima nelle carceri della Santé, fu successivamente trasferito in Germania e, di qui, in Italia dove rimase per due anni al confino in provincia di Perugia.
Riacquistata la libertà alla caduta del fascismo, ai primi di agosto del 1943, Bruno Buozzi fu nominato dal governo Badoglio, insieme al comunista Giovanni Roveda e al democristiano Gioacchino Quarello, commissario alla Confederazione dei sindacati dell'industria. Durante l'occupazione nazista di Roma, Buozzi trovò ospitalità presso un amico colonnello e, quando questi dovette darsi alla macchia, cercò un altro precario rifugio, dove fu sorpreso dalla polizia.
Era il 13 aprile 1944. Fermato per accertamenti e condotto in via Tasso, i fascisti scoprirono la vera identità del sindacalista. Il CLN di Roma tentò a più riprese, ma senza successo, di organizzarne l'evasione e il 1° giugno 1944, quando gli americani erano ormai alle porte della Capitale, il nome di Bruno Buozzi fu incluso dalla polizia tedesca in un elenco di 160 prigionieri destinati ad essere evacuati da Roma. La sera del 3 giugno, con altri 12 compagni, Buozzi fu caricato su un camion tedesco, che si avviò lungo la via Cassia, ingombra di truppe in ritirata. In località La Storta, forse per la difficoltà di proseguire, l'automezzo si fermò e i prigionieri furono fatti scendere. Rinchiuso in un fienile per la notte, all'indomani il gruppo fu brutalmente sospinto in una valletta e Bruno Buozzi - sembra per ordine del capitano delle SS Erich Priebke - fu trucidato con tutti i suoi compagni.
Dopo la Liberazione, a Bruno Buozzi sono state intitolate strade e piazze a Roma e in molte altre città d'Italia. Portano il suo nome anche cooperative, associazioni sportive, scuole. Una Fondazione Bruno Buozzi, che ha tra i suoi compiti quello di incrementare gli studi sul sindacalismo, si è costituita a Roma il 24 gennaio 2003. La presiede Giorgio Benvenuto.

https://www.anpi.it/biografia/bruno-buozzi 

Per approfondire visita anche:

https://it.wikipedia.org/wiki/Bruno_Buozzi 

martedì 20 febbraio 2024

INNO DI MAMELI

 

Fratelli d'Italia

Dobbiamo alla città di Genova Il Canto degli Italiani, meglio conosciuto come Inno di Mameli. Scritto nell'autunno del 1847 dall'allora ventenne studente e patriota Goffredo Mameli, musicato poco dopo a Torino da un altro genovese, Michele Novaro, il Canto degli Italiani nacque in quel clima di fervore patriottico che già preludeva alla guerra contro l'Austria.

L'immediatezza dei versi e l'impeto della melodia ne fecero il più amato canto dell'unificazione, non solo durante la stagione risorgimentale, ma anche nei decenni successivi. Non a caso Giuseppe Verdi, nel suo Inno delle Nazioni del 1862, affidò proprio al Canto degli Italiani - e non alla Marcia Reale - il compito di simboleggiare la nostra Patria, ponendolo accanto a God Save the Queen e alla Marsigliese.

Fu quasi naturale, dunque, che il 12 ottobre 1946 l'Inno di Mameli divenisse l'inno nazionale della Repubblica Italiana.

Il poeta

ritratto di Mameli

Goffredo Mameli dei Mannelli nasce a Genova il 5 settembre 1827 (figlio di Adele - o Adelaide - Zoagli, discendente di una delle più insigni famiglie aristocratiche genovesi, e di Giorgio, cagliaritano, comandante di una squadra della flotta del Regno di Sardegna). Studente e poeta precocissimo, di sentimenti liberali e repubblicani, aderisce al mazzinianesimo nel 1847, l'anno in cui partecipa attivamente alle grandi manifestazioni genovesi per le riforme e compone Il Canto degli Italiani. D'ora in poi, la vita del poeta-soldato sarà dedicata interamente alla causa italiana: nel marzo del 1848, a capo di 300 volontari, raggiunge Milano insorta, per poi combattere gli Austriaci sul Mincio col grado di capitano dei bersaglieri.

Dopo l'armistizio Salasco, torna a Genova, collabora con Garibaldi e, in novembre, raggiunge Roma dove, il 9 febbraio 1849, viene proclamata la Repubblica. Nonostante la febbre, è sempre in prima linea nella difesa della città assediata dai Francesi: il 3 giugno è ferito alla gamba sinistra, che dovrà essere amputata per la sopraggiunta cancrena.

Muore d'infezione il 6 luglio, alle sette e mezza del mattino, a soli ventidue anni. Le sue spoglie riposano nel Mausoleo Ossario del Gianicolo.

 

Il musicista

Ritratto di Michele Novaro

Michele Novaro nacque il 23 ottobre 1818 a Genova, dove studiò composizione e canto. Nel 1847 è a Torino, con un contratto di secondo tenore e maestro dei cori dei Teatri Regio e Carignano.

Convinto liberale, offrì alla causa dell'indipendenza il suo talento compositivo, musicando decine di canti patriottici e organizzando spettacoli per la raccolta di fondi destinati alle imprese garibaldine.

Di indole modesta, non trasse alcun vantaggio dal suo inno più famoso, neanche dopo l'Unità. Tornato a Genova, fra il 1864 e il 1865 fondò una Scuola Corale Popolare, alla quale avrebbe dedicato tutto il suo impegno.

Morì povero, il 21 ottobre 1885, e lo scorcio della sua vita fu segnato da difficoltà finanziarie e da problemi di salute. Per iniziativa dei suoi ex allievi, gli venne eretto un monumento funebre nel cimitero di Staglieno, dove oggi riposa vicino alla tomba di Mazzini.

Come nacque l'inno Il testo e lo spartito dell'Inno

La testimonianza più nota è quella resa, seppure molti anni più tardi, da Anton Giulio Barrili, patriota e poeta, amico e biografo di Mameli.

Siamo a Torino: "Colà, in una sera di mezzo settembre, in casa di Lorenzo Valerio, fior di patriota e scrittore di buon nome, si faceva musica e politica insieme. Infatti, per mandarle d'accordo, si leggevano al pianoforte parecchi inni sbocciati appunto in quell'anno per ogni terra d'Italia, da quello del Meucci, di Roma, musicato dal Magazzari - Del nuovo anno già l'alba primiera - al recentissimo del piemontese Bertoldi - Coll'azzurra coccarda sul petto - musicata dal Rossi.

In quel mezzo entra nel salotto un nuovo ospite, Ulisse Borzino, l'egregio pittore che tutti i miei genovesi rammentano. Giungeva egli appunto da Genova; e voltosi al Novaro, con un foglietto che aveva cavato di tasca in quel punto: - To' gli disse; te lo manda Goffredo. - Il Novaro apre il foglietto, legge, si commuove. Gli chiedono tutti cos'è; gli fan ressa d'attorno. - Una cosa stupenda! - esclama il maestro; e legge ad alta voce, e solleva ad entusiasmo tutto il suo uditorio. - Io sentii - mi diceva il Maestro nell'aprile del '75, avendogli io chiesto notizie dell'Inno, per una commemorazione che dovevo tenere del Mameli - io sentii dentro di me qualche cosa di straordinario, che non saprei definire adesso, con tutti i ventisette anni trascorsi. So che piansi, che ero agitato, e non potevo star fermo.

Mi posi al cembalo, coi versi di Goffredo sul leggio, e strimpellavo, assassinavo colle dita convulse quel povero strumento, sempre cogli occhi all'inno, mettendo giù frasi melodiche, l'un sull'altra, ma lungi le mille miglia dall'idea che potessero adattarsi a quelle parole. Mi alzai scontento di me; mi trattenni ancora un po' in casa Valerio, ma sempre con quei versi davanti agli occhi della mente. Vidi che non c'era rimedio, presi congedo e corsi a casa. Là, senza neppure levarmi il cappello, mi buttai al pianoforte.

Mi tornò alla memoria il motivo strimpellato in casa Valerio: lo scrissi su d'un foglio di carta, il primo che mi venne alle mani: nella mia agitazione rovesciai la lucerna sul cembalo e, per conseguenza, anche sul povero foglio; fu questo l'originale dell'inno Fratelli d'Italia." 

Il testo dell'Inno nazionale

Fratelli d'Italia
L'Italia s'è desta,
Dell'elmo di Scipio
S'è cinta la testa.
Dov'è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Uniamoci, amiamoci,
l'Unione, e l'amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Dall'Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò.

Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L'Italia chiamò

Ritratto di ScipioneLa cultura di Mameli è classica e forte è il richiamo alla romanità. È di Scipione l'Africano, il vincitore di Zama, l'elmo che indossa l'Italia pronta alla guerra

rappresentazione della Vittoria La Vittoria si offre alla nuova Italia e a Roma, di cui la dea fu schiava per volere divino. La Patria chiama alle armi: la coorte, infatti, era la decima parte della legione romana

La bandiera italianaUna bandiera e una speranza (speme) comuni per l'Italia, nel 1848 ancora divisa in sette Stati

Giuseppe MazziniMazziniano e repubblicano, Mameli traduce qui il disegno politico del creatore della Giovine Italia e della Giovine Europa. "Per Dio" è un francesismo, che vale come "attraverso Dio", "da Dio"

La battaglia di LegnanoIn questa strofa, Mameli ripercorre sette secoli di lotta contro il dominio straniero. Anzitutto,la battaglia di Legnano del 1176, in cui la Lega Lombarda sconfisse Barbarossa. Poi, l'estrema difesa della Repubblica di Firenze,assediata dall'esercito imperiale di Carlo V nel 1530, di cui fu simbolo il capitano Francesco Ferrucci. Il 2 agosto, dieci giorni prima della capitolazione della città, egli sconfisse le truppe nemiche a Gavinana; ferito e catturato, viene finito da Fabrizio Maramaldo, un italiano al soldo straniero, al quale rivolge le parole d'infamia divenute celebri "Tu uccidi un uomo morto"

BalillaSebbene non accertata storicamente, la figura di Balilla rappresenta il simbolo della rivolta popolare di Genova contro la coalizione austro-piemontese. Dopo cinque giorni di lotta, il 10 dicembre 1746 la città è finalmente libera dalle truppe austriache che l'avevano occupata e vessata per diversi mesi

I Vespri sicilaniOgni squilla significa "ogni campana". E la sera del 30 marzo 1282, tutte le campane chiamarono il popolo di Palermo all'insurrezione contro i Francesi di Carlo d'Angiò, i Vespri Siciliani.

Stemma asburgicoL'Austria era in declino (le spade vendute sono le truppe mercenarie, deboli come giunchi) e Mameli lo sottolinea fortemente: questa strofa, infatti, fu in origine censurata dal governo piemontese. Insieme con la Russia (il cosacco), l'Austria aveva crudelmente smembrato la Polonia. Ma il sangue dei due popoli oppressi si fa veleno, che dilania il cuore della nera aquila d'Asburgo.

 

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