Questo blog aderisce alla proposta di una mostra celebrativa
su Italo Balbo che “colga tutti gli aspetti del personaggio”, e con
spirito costruttivo avanza una proposta di testi e immagini per 6
cartelloni introduttivi.
1. Il conte e il leccaculo
Nel suo Diario 1922,
alla data del 5 febbraio Balbo scrive: “Ho conosciuto il conte Volpi a
Venezia. È un tipo. Me lo presentò la scorsa estate l’amico ferrarese
Vittorio Cini”. Questa annotazione è la prova provata del fatto che il Diario 1922
è un falso, scritto a posteriori e spacciato per l’agenda del ’22.
Basterebbe un confronto fra lo stile di scrittura dell’autore (una
sequenza di periodi elementari collegati dal solo punto, forse per il
sospetto che le subordinate siano sovversive) e i testi dei comizi di
Balbo riportati sui giornali locali (la classica prosa del
piccolo-borghese di inizio secolo con aspirazioni alte, pomposa e
infarcita di carduccismi). Ma qui casca l’asino: perché nel ’22 (anzi,
nel ’21) Balbo non avrebbe potuto chiamare Volpi “conte”, titolo che gli
fu conferito solo nel 1925. Giuseppe Volpi è una figura decisiva nel
rapporto fra industriali e fascismo: il suo ingresso nel governo, nel
pieno della crisi seguita all’assassinio di Matteotti, fu un chiaro
segnale di come si schieravano i padroni. Sicché, quando Balbo (o il suo
ghost-writer, probabilmente Nello Quilici) scrive, a
posteriori, queste pagine non riesce a non chiamarlo “conte”. Balbo era
ardito ed eroico, in dieci armati contro uno (se disarmato: quando
incontra chi gli risponde armi in pugno, come gli Arditi del Popolo di
Parma, il Balbo fegato di leopardo si muta in coniglio, e scappa); era
eroico, grazie alla “complicità dei pubblici poteri, inerti o plaudenti
dinanzi al ‘dinamismo’ fascista quanto solerti e zelanti dinanzi alle
reazioni provenienti dal campo proletario” (così Alessandro Roveri):
davanti a un padrone come Volpi, Balbo si rivela un prono giullare
pronto a nettargli le terga. In definitiva, la quintessenza del fascismo
e dei fascisti.
2. Le polveri di Balbo
Un’indiscussa,
anche se misconosciuta, protagonista del fascismo, prima e durante il
Ventennio, è madama Sleppa: la cocaina. Balbo ne è letteralmente
circondato. La cocaina si diffonde fra i fascisti estensi dopo essere
arrivata col ritorno degli arditi fiumani – fra i quali Balbo non c’era:
come testimonia Guido Torti, fascista della prim’ora, nel dicembre del
’20 Balbo “combatteva il bolscevismo giocando a poker” nei bar di piazza
Ariostea. Cocaina e cherry brandy (da cui, per deformazione,
“Celibano”) sono il carburante dello squadrismo: drogati e pieni di
cocaina (vedi le testimonianze raccolte da Sitti e Previati), con buona
pace del cuore di dinamo e fegato di leopardo. È un cocainomane (lo
segnala anche Franzinelli) Beltrami, il braccio destro di Balbo: quando,
messo da parte assieme ai fascisti delle origini (dopo una spedizione
di squadristi perugini contro i dissidenti ferraresi), renderà pubbliche
le malefatte di Balbo, i fascisti non esiteranno a denunciarne il
vizietto sulla prima pagina del “Balilla”, senza accorgersi
dell’effetto-boomerang, giacché era stato uno di loro. Circola a fiumi
la polverina nel giro bolognese di Arpinati, dove Balbo è di casa, ma
anche nelle feste galanti in Versilia, dove Balbo arriva ammarando in
aereo per farsi servire il Negroni dai camerieri sul pattino, in un giro
di amanti che non si perita di nascondere, benché difenda
fascisticamente, con Dio e la Patria, la Famiglia; e dove dà spettacolo
la figlia del Duce, Edda, anche lei aspirante, che non si priva di alcun
piacere, in barba alle spie che il padre le mette alle calcagna.
Frequentano madama Sleppa il camerata Muti, ma soprattutto l’intimo
amico Magnani, il centese che Gian Carlo Fusco definisce “amico di latte
della cocaina”. Non stupisce, dunque, che fra le imprese aviatorie di
Balbo ci sia un evocativo atterraggio sulla neve. Balbo è morto, madama
Sleppa invece se la passa ancora bene: la sua persistente popolarità
nelle stanze del potere e nei piani alti della buona società spiega
molte cose.
3. Il sangue dei giusti
Della
condotta gangsteristica di Balbo non dovrebbe esserci bisogno di
parlare: eppure qualcosa bisognerà pur sottolineare, contro la mitologia
creata dallo stesso Balbo. Ad esempio, la sua dedizione alla causa
della prim’ora: Balbo abbandona il Bar Estense, il poker e il whisky
dopo una vera e propria trattativa conclusasi con un assegno mensile di
1.500 lire, la nomina a segretario, la garanzia di un impiego bancario
“alla fine della battaglia”; ma anche, un giornale, e una cassa con 200
rivoltelle di provenienza militare (il comandante del distretto militare
di Ferrara, denunciò Matteotti il 1 febbraio 1921 alla Camera, era un
noto fascista). L’acquisto di Balbo segna la svolta del fascio
ferrarese, che diventa “la guardia del corpo del pescecanismo” (sono
parole di Gaggioli riportate da Corner), l’esercito personale degli
agrari e degli industriali, terrorizzati dalla pretesa dei contadini e
degli operai di giustizia sociale e politica. Balbo è responsabile
diretto, morale o politico di omicidi premeditati (la consegna di
somministrare “bastonate di stile” significava frattura del cranio), o
causati dal mix di cocaina e alcool che portava gli “arditi” fascisti a
trascendere dalla bastonatura all’omicidio. Basta citarne due, i più
emblematici: Natale Gaiba e don Minzoni. Natale Gaiba viene assassinato
per vendicare l’offesa, compiuta quando il sindacalista argentano era
assessore al comune, di aver fatto sequestrare l’ammasso illegale di
grano al Molino Moretti. Di avere, cioè, preteso che il grano imboscato
per farne salire il prezzo venisse strappato agli agrari e restituito al
popolo che lo aveva prodotto coltivando la terra, e che faceva la fame.
Don Minzoni viene assassinato dai fascisti locali: lo sappiamo con
certezza, dopo che don Romano Fiorentini, il parroco di Boccaleone ha
confessato di essere figlio del mezzadro Gaetano, ras del fascio locale,
che diede alloggio ai sicari; mezzadro sulla terra di una delle
famiglie di agrari che figurano fra i sottoscrittori del fascio
argentano (Giovanni Bedeschi, nella sua biografia di don Minzoni, lascia
intendere di conoscere il nome di Fiorentini, ma non avendo ancora la
prova non può dirlo). Balbo non può ammettere che siano stati
individuati e arrestati i fascisti che organizzarono l’assassinio, fra i
quali Raul Forti “il più bel fascista di Ferrara”: e interviene in
molti modi, anche con la costante presenza in aula, a condizionare le
indagini e il processo. Più infame ancora dell’appoggio politico e
morale ai bastonatori, la diceria che don Minzoni avesse un’amante,
costruita a partire da una colletta fatta dal parroco per consentire a
una contadina povera di andare a nozze con un vestito degno: diceria
propagata anche dal “Corriere Padano”, il giornale che Balbo dirige
assieme al fido Quilici.
Gli esaltatori delle trasvolate atlantiche non mancano di citare le
manifestazioni organizzate a Chicago in onore del trasvolatore: chissà
perché omettono sempre di citare lo striscione che recitava “Balbo, don
Minzoni ti saluta”. Gaiba e don Minzoni, assieme a molti altri (per
citarne tre, dallo studente partigiano Ludovico Ticchioni al professor
Francesco Viviani caduto a Buchenwald, al magistrato Pasquale
Colagrande), prima, durante e dopo la marcia su Roma, testimoniano col
loro sacrificio o la loro lotta sotterranea, che i ferraresi non erano, e
non sono, tutti uguali.
4. La tribù di Levi
Balbo
protettore degli ebrei, dice la vulgata. Ma davvero? Che Balbo abbia
offerto protezione alla borghesia ebraica, che era filofascista
(un’infamia che non ha mai cessato di ricordarci Bassani), è un fatto.
Così come è un fatto che l’opposizione di Balbo alle leggi razziali non
andò oltre qualche urlo in Gran Consiglio, senza che gli passasse per la
testa di mettere sul tavolo le sue dimissioni, o di mandare a
scoreggiare nella crusca quel Quilici che, pur di mantenere le proprie
posizioni, aveva scritto La difesa della razza in appoggio alle leggi razziali. Ma la protezione agli ebrei fascisti non significa protezione verso gli ebrei tout court,
come testimonia un articolo del 15 luglio 1925. Il giorno prima, a
Firenze, all’uscita da un processo erano stati inseguiti e bastonati dai
fascisti locali Gaetano Salvemini e alcuni antifascisti che lo
accompagnavano. Fra questi, i professori Alessandro Levi e Pintor
Luzzato. Nell’articolo di fondo in prima pagina del “Corriere Padano”
(in alto a sinistra, non firmato: che dunque esprime l’opinione del
direttore) Balbo, che di Salvemini scrive che “vi sono faccie [sic!]
al mondo, portate in giro qualche volta anche da persone per bene, che
attirano gli schiaffi , come la sputacchiera gli sputi”, afferma,
commentando l’agguato:
La commedia è finita come doveva finire, cioè con la comparsa improvvisa di Fasulèn,
che ha crocchiato di santa ragione sulle teste di legno, con l’arte e
lo stile che gli sono consueti. Alcuni personaggi – tra i quali vediamo
con piacere qualche rappresentante della tribù di Levi – sono finiti a
un certo punto dentro un negozio.
Qualche rappresentante della tribù di Levi, teste di legno,
della cui bastonatura Balbo si compiace: non serve altro commento. Se
non per ricordare che il vicedirettore, e di fatto il vero direttore (lo
sarebbe diventato anche formalmente a breve) era quel Nello Quilici che
non alzò un sopracciglio a fronte di queste parole. Ma bisogna capirlo:
si era nel pieno della crisi aventiniana, innescata dall’assassinio di
Matteotti compiuto nell’auto che era nella disponibilità dello stesso
Quilici al “Corriere Italiano”, e che dal garage del giornale i sicari
hanno prelevato chiavi in mano. La chiamata a Ferrara al “Corriere
Padano”, sotto la protezione di Balbo, aveva sottratto Quilici
all’attenzione della magistratura romana: poteva l’eroico scrivano
mettere a repentaglio il suo buon rifugio ferrarese, in giorni così
incerti?
5. Stormi in volo sull’oceano
Il
Balbo aviatore e le trasvolate atlantiche sono un capolavoro di
marketing: un esempio di come, e a quale prezzo, funzionava la macchina
propagandistica del Regime. Trasvolate e gare di velocità aeree erano,
negli anni Venti, un laboratorio di sperimentazioni nello sviluppo
aereo, e una palestra di addestramento dei piloti, in anni pionieristici
per l’areonautica. Ma quando, nella seconda metà del decennio,
l’areonautica italiana è colta da una vera e propria frenesia di record e
trasvolate, queste sperimentazioni sono in declino: tutto quel che
c’era da ricavarne è stato conseguito da paesi più avanzati del nostro, e
lo sviluppo dell’areonautica è ora saldamente affidato alle industrie,
non ai pionieri spericolati. Balbo, insomma, può farsi grosso perché
manca la concorrenza: un po’ come se la Ferrari tornasse a primeggiare
perché McLaren-Mercedes si sono ritirate (fermo restando che un pilota
solitario francese vola da Parigi a Pechino nello stesso anno della
trasvolata atlantica: ma è un’impresa individuale, senza battage
propagandistico). E può fare il grosso perché usa il suo peso politico
per far fuori prima Nobile, e poi, dopo averlo sfruttato e vampirizzato,
De Pinedo, il vero artefice delle imprese aeree cui Balbo va a
rimorchio, salvo prendersene il merito. Ma il prezzo delle “imprese”
aeree di Balbo è pesante. Ogni anno decine di piloti morivano nelle
esercitazioni: manca una cifra totale, ma per dare un’idea nel solo 1927
Claudio G. Segre conta 581 incidenti con 58 piloti morti; nel 1932 i
piloti morti sono 30, due dei quali, uno all’andata e uno al ritorno,
proprio nella trasvolata atlantica. Balbo concentra tutte le risorse in
aerei che sono veloci perché alleggeriti di tutto, anche
dell’essenziale, invece di investire nella sperimentazione e
nell’innovazione: buoni per vincere una coppa, non certo per fare la
guerra. Le risorse sono concentrate sulle futili gare che tanto
piacevano a Balbo: in compenso, le ore di addestramento effettivo per la
restante aviazione sono la metà di quelle dell’aviazione francese e
della R.A.F, un terzo dell’aviazione statunitense. Balbo bara anche con
le cifre, nasconde le spese e tarocca i bilanci effettivi: e mente sul
reale stato della flotta aerea. Quando, nel 1933, Mussolini gli toglie
il giocattolo e fa ispezionare i velivoli, scopre che su asseriti (da
Balbo) 3.125 aerei in organico, solo 911 sono in grado di volare. Da
questo sfacelo l’aeronautica italiana non si riprenderà: gli aerei
italiani da guerra, in assenza di progressi nelle costruzioni e di
un’industria che ne supporti la costruzione (per effetto del monopolio
di fatto garantito a FIAT e Savoia-Marchetti) resteranno privi di
corazzature, costruiti prevalentemente in tela alluminizzata e tubi
innocenti, con il pilota allo scoperto (e quindi senza poter raggiungere
la tangenza massima) e senza apparecchi radio, più lenti di quelli
inglesi (il CR 42 Falco non superava i 470 km/h, mentre gli Spitfire
inglesi raggiungevano i 570 km/h). Con queste bare volanti, o “vacche”
(come i piloti chiamavano i Savoia-Marchetti), i nostri piloti andranno
al macello in guerra. Apparecchi al livello di una nazione arretrata,
con un’industria arretrata, governata da un Regime che, dopo aver
raccolto l’aspirazione futurista alla modernizzazione e alla
velocizzazione, ha bloccato il paese nella stagnazione produttiva e
invoca la riruralizzazione dell’Italia. Nel triennio 1940-43 l’industria
italiana produrrà 11.508 aerei, contro i 74.113 inglesi e i 63.189
tedeschi. Ancora una volta, Balbo è l’emblema del fascismo, nel male e
nel peggio: e senza saperlo, con le sue sboronate aeree sta cominciando a
piantarsi i chiodi sulla bara.
6. Il postino suona sempre due volte
Sulla
morte di Balbo in Libia c’è poco da congetturare: persino Folco
Quilici, nel suo bel libro d’inchiesta sull’incidente di Tobruk, non è
riuscito a dimostrare che ci fu intenzione nei colpi di mitraglia
italiani che abbatterono il suo Sparviero. E del resto, chi sparò non
poteva sapere che su quell’aereo c’era Balbo. Partito alle 17 da Derna
con due SM 79 e un corteo di una decina di ospiti per andare a catturare
qualche veicolo britannico (“Non abbiamo autoblindo? Andiamo a
prenderle agli inglesi!”), convinto che la guerra sia una guasconata,
Balbo non si preoccupa di consegnare un piano di volo: con un
aereo in tela e tubi, più lento di quelli inglesi e per di più
appesantito da qualche centinaio di chili (gli ospiti della gita, fra i
quali il fido Quilici, i proiettili delle mitraglie e le bombe per
l’impresa), per non dire dei 2000 litri di carburante, crede di poter
dare battaglia. Ha un’età, e un giro vita, che consiglierebbero meno
spavalderia: ma Balbo, bugiardo incorreggibile, ha bisogno di mentire
anche a se stesso e di credersi più giovane di quel che è: amanti
indigene e una panciera che lo strizza lo aiutano nella finzione. Pochi
minuti dopo, mentre è in volo col suo SM, una squadriglia di Bristol
Blenheim della R.A.F. giunge inattesa su Tobruk e per dieci lunghissimi
minuti martella il campo T2 con le sue mitragliatrici Browning colpendo,
danneggiando, ferendo, uccidendo, infierendo sui soldati italiani privi
di una credibile contraerea – di radar neanche a parlarne, men che meno
del fantomatico “raggio della morte” che Marconi stava senz’altro
inventando, anzi già sperimentando, col quale avremmo senz’altro vinto
la guerra. Balbo si dirige su Tobruk e fa la sua ultima pirlata: nel
doppio senso di curvare a mancina, e di fare una manovra da pirla,
perché non si cura della direzione di svolta, non si chiede qual è la
differenza fra arrivare a Tobruk dal deserto o dal mare, mentre il sole
va a tramontare.
Balbo esegue lo sbloccaggio dei deflettori e la regolazione del
dispositivo di stabilizzazione dell’aereo, che va a planare a 200
chilometri orari, per poi ridurre progressivamente la velocità con
l’azione della cloche, finché, allertato dall’allarme acustico e dalla
spia che s’accende sul rosso, sposta la leva che comanda l’uscita del
carrello. I soldati italiani, ancora terrorizzati dal raid inglese e in
attesa di un possibile secondo passaggio, con la sabbia sottile del
deserto nell’aria sollevata dal Ghibli, vedono arrivare col sole basso
sulla linea dell’orizzonte alle spalle un aereo: con le mani sulla Breda
20mm che arriva a una gittata di 5500 metri in orizzontale, il sole
negli occhi e la sabbia che fa tremolare l’aria, un soldato friulano
preme il grilletto puntando all’aereo in volo discendente, senza sapere
che è quello di Balbo. I gà rustì como dordei, dichiarerà con
la sua parlata di Ronchi. Sulla San Giorgio, una nave semiaffondata
davanti a Tobruk per fare da presidio antiaereo, cioè da bersaglio per
gli aerei britannici (che la centreranno un anno dopo), si festeggia
l’abbattimento del presunto aereo inglese. Nel giro di dieci minuti
arriva la notizia: era uno dei nostri. No, non era solo uno dei nostri:
era l’aereo di Balbo. E, dopo un attimo di sbigottimento, parte il primo
evviva!, seguito dal boato di tutta la nave: Buffone! Cialtrone!
Fascista di merda! E mentre gli ufficiali brindano alla fine del
pagliaccio che credeva di vincere la guerra da solo: Savoia! Viva il Re!
Chissà se, mentre il serbatoio dell’aereo veniva colpito e il fuoco
avvolgeva il SM 79, a Balbo è apparso don Minzoni, a salutarlo.
Bibliografia minima utilizzata:
Italo Balbo, Diario 1922, Mondadori 1932
Lorenzo Bedeschi, Don Minzoni. Il prete ucciso dai fascisti, Bompiani 1973
Paul R. Corner, Il fascismo a Ferrara, Laterza 1974
Giovanni Fasanella, Mario José Cereghino, Le carte segrete del duce, Mondadori 2014
Mimmo Franzinelli, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Mondadori 2003
Gian Carlo Fusco, Mussolini e le donne, Sellerio 2006
Folco Quilici, Tobruk 1940, Mondadori 2006
Alessandro Roveri, Le origini del fascismo a Ferrara 1918/1921, Feltrinelli 1974
Claudio G. Segre, Italo Balbo, il Mulino 1988
Renato Sitti, Lucilla Previati, Ferrara, il regime fascista. Documenti e immagini del fascismo ferrarese, La Pietra 1976
Post tratto da:
https://www.estense.com/?cat=55987
---------------------
Caro Vittorio, su Balbo ti sbagli
Ciao Vittorio,
Ci siamo già incontrati un paio di volte, e ti ho sempre portato il
rispetto che devo sia a un Deputato della RI che come uomo di cultura.
Ma ritengo che tra tutte le azioni; che tu puoi compiere, per definire
Ferrara una città di cultura e di apertura, quella di intitolare una via
a Italo Balbo sia una di quelle meno apprezzabili sia come Ferrarese
che come Antifascista.
Non vado a giudicare la figura che Balbo ha avuto all’interno
dell’aviazione, tant’è che tutti né hanno pianto la morte “accidentale”
specialmente gli avversari, ma non posso e non puoi nemmeno tu scordare
che Balbo era un Gerarca Fascista. Quel Balbo a cui vuoi dedicare una
via di Ferrara non si scompose di fronte all’Abolizione degli altri
partiti, di fronte allo squadrismo (fu comandante nel ‘24 della stessa
milizia) che nacque dagli anni ’20 e che imperverso fino al 25 di
Aprile, all’uso di gas in Etiopia.
Stai liberamente e volontariamente dando una revisione storica
ponendo un gerarca Fascista in un’accezione positiva, quasi come se non
avesse mai partecipato al Consiglio dei ministri di Mussolini o che si
fosse battuto per il mantenimento della democrazia – quella che ti
permette di parlare, anche quando commenti più gaffe in parlamento o
dalla Durso –.
Mi spiace ma a Ferrara, in Italia, non c’è posto per revisionismi.
Vittorio, nulla esclude che tu sia un professionista nel campo
dell’Arte, ma non può sputare sulla memoria di chi si è opposto al
regime fascista sia con queste proposte che con l’insistenza nella
apoteosi di una figura che nonostante fosse un eccellente aviatore ha
contribuito in una forma determinante al periodo più buio del XX secolo
che l’Italia ha vissuto.
Sergio Echamanov, cittadino di Ferrara
Post tratto da:
https://www.estense.com/?p=876786