Gioacchino (Nino) Bonnet, nato il 26 luglio 1819 da
Augustin Stephan e da Barbara Guggi, è stato un famoso patriota italiano
Il padre, originario di Marsiglia, era giunto a
Comacchio nel 1811 per occuparsi della direzione delle saline lagunari
in occasione del loro ammodernamento in pieno periodo napoleonico.
Acquisita una piccola proprietà terriera e nominato consigliere comunale
nel 1839, Agostino Stefano si era infine inserito a pieno titolo
nell'ambiente del notabilato locale politicizzatosi in senso radicale.
Dato il particolare contesto ambientale e familiare, non fu dunque un
caso se Gioacchino, che in precedenza aveva aderito alla Giovane
Italia, fra la fine del 1847 e l'inizio del 1848, si rivelò una delle
personalità di punta del locale movimento risorgimentale. La venuta a
Comacchio dei lancieri di Masini per sollecitare gli arruolamenti
volontari il 3 novembre 1848 e, concordato direttamente con il Bonnet a
Ravenna, dello stesso Garibaldi il giorno 18 successivo, divenne subito
un potente fattore di mobilitazione patriottica in città. La sera
stessa, avuta notizia dell'assassinio di Pellegrino Rossi, Masini e suoi
lancieri si imbarcarono a Magnavacca. Insieme a loro partivano undici
volontari comacchiesi, fra i quali due fratelli dello stesso Bonnet,
Raimondo e Gaetano, quest'ultimo destinato a cadere in difesa di Roma
l'anno successivo.
Dopo la Caduta della Repubblica Romana, la notte del 3 agosto 1849 le
tredici imbarcazioni salpate da Cesenatico che trasportavano Garibaldi e
i suoi in viaggio verso Venezia furono intercettate dalle navi
austriache e il mattino seguente due bragozzi prendevano terra sulla
costa, allora pressochè disabitata, tra Magnavacca e il Volano.
La maggior parte di loro si disperse nell'entroterra per essere poi
catturata nei giorni seguenti dagli austriaci: non così Garibaldi, Anita
e Giovan Battista Culiolo (Leggero), che furono messi in salvo da
Bonnet, accorso sentiti i cannoneggiamente sul mare. Le vicende della
"trafila garibaldina" segnalano una forte catena di sostegni e
solidarietà popolare senza la quale il salvataggio di Garibaldi sarebbe
stato obiettivamente irrealizzabile. Partecipò a numerose campagne
militari e per l'eroismo dimostrato in particolare a Milazzo e al
Volturno nel 1860 ebbe la medaglia d'argento al valor militare e la
promozione a tenente colonnello di stato maggiore.
Nino Bonnet, che sarà poi eletto sindaco della sua città natale nel
1877, morì a Magnavacca (dal 1919 Porto Garibaldi, in memoria) il 31
dicembre 1890.
La sua partecipazione al salvataggio di Garibaldi viene ricordata nel
volume autografo Lo sbarco di Garibaldi a Magnavacca. Episodio storico
del 1849.
Patriota e religioso italiano del Risorgimento, si chiamava in realtà
Giuseppe, ma adotta il nome di Ugo in onore al poeta Foscolo. Nasce a
Cento di Ferrara il 12 agosto 1801 da Luigi Sante impiegato della dogana
pontificia e da Felicita Rossetti, di S. Felice sul Panaro, cameriera.
Adolescente durante l'età napoleonica, studia nel collegio Barnabita di
Bologna ed in questo momento si avvicina verso gli ambienti culturali
liberali. Rimane affascinato dal Proclama che Gioacchino Murat
lancia da Rimini nel 1815, parlando per la prima volta di una Italia
libera e unita. Fugge dal collegio per arruolarsi, ma per la giovane età
viene rifiutato. Dopo gli studi a Bologna, Napoli e Roma, nel 1821
pronuncia i voti nella città capitolina. Uomo di grande cultura diviene
famoso e ricercato predicatore, ma spesso si scontra con le gerarchie
ecclesiastiche a causa delle sue denunce sui mali della società e alle
tematiche patriottiche che sempre inserisce nei suoi discorsi.
Nel
1848 senza esitazione si unisce ai volontari che partono per combattere
nella Prima Guerra di Indipendenza contro l'Austria per poter offrire
il suo appoggio morale, ed a Treviso viene ferito e poi portato a
Venezia, dove sosterrà la Repubblica di San Marco. Nel 1849 è a Roma,
dove assiste alla nascita della Repubblica Romana e viene nominato
cappellano della Legione di Garibaldi. Così Bassi
descrive l'incontro con l'Eroe dei Due Mondi: "Garibaldi è l'eroe più
degno di poema, che io sperassi in vita mia di vedere. Le nostre anime
si sono congiunte come se fossero state sorelle in cielo prima di
trovarsi nelle vie della terra". A seguito della caduta della Repubblica
Romana fugge verso Venezia con Garibaldi, Anita, Francesco Nullo,
Ciceruacchio, Giovanni Livraghi e gli altri volontari che seguirono il
Generale alla volta di Venezia. Arrivati dopo varie peripezie a S.
Marino, il gruppo si divide e Ugo Bassi e Livraghi rimangono con
Garibaldi e Anita ormai morente. Nei pressi di Comacchio, Bassi e
Livraghi vengono catturati, arrestati dagli austriaci e trasferiti a
Bologna. Il 7 agosto, senza aver subito alcun processo, vengono
condannati a morte e il giorno successivo vengono portati in via della
Certosa, fucilati e buttati in una unica fossa all'altezza degli archi
66/67 del portico in cui oggi sorge la Torre di Maratona dello Stadio. I
bolognesi iniziano dal primo giorno a rendere omaggio ai patrioti, di
conseguenza gli austriaci decidono di esumare le salme nella notte fra
il 18 e il 19 e di seppellirli in luogo segreto all'interno del
cimitero.
Solo nel 1859 i parenti potranno collocare le ossa nella tomba di
famiglia collocata nella Sala delle Tombe. Così Enrico Bottrigari nella
sua Cronaca di Bologna (Zanichelli, 1960) ricorda come il 5 agosto: "un
alto funzionario governativo, insieme ad un parente del defunto, e ad
alcuni testimonii recatisi al Cimitero dissotterrarono il Cadavere e lo
rinchiusero in una Cassa, dopo di che se ne fece il trasporto nella
Chiesa suddetta, e terminato il sacro rito, venne deposto entro il
sepolcro della famiglia". Pocchi giorni dopo, il 16 agosto, Giuseppe
Garibaldi renderà omaggio al suo compagno pronunciando un discorso
davanti alla sua tomba.
Dall'8 agosto 1940, con una cerimonia di
propaganda organizzata dal regime fascista, i suoi resti sono traslati
dalla semplice sepoltura familiare in un sarcofago poso all'interno del
sacrario dei Caduti della Grande Guerra.
Si tratta dell'unica chiesa completamente barocca della città. Fu progettata da Giovan Battista Aleotti
detto l'Argenta, con il concorso del cardinale Carlo Emanuele Pio di
Savoia, in sostituzione di un oratorio dedicato ai santi Filippo e
Giacomo. La chiesa fu edificata tra il 1612 e il 1623.
In regime napoleonico il 4 agosto 1808 la chiesa venne assegnata all'arcispedale Sant'Anna, che ne è tuttora il proprietario.
La chiesa, di proprietà dell'Azienda USL di Ferrara, è stata danneggiata dal terremoto dell'Emilia del 2012
e non è visitabile. Per ragioni di sicurezza sono state rimosse le
statue un tempo collocate sul timpano della facciata. Nell'aprile del
2022 è stato completato l'intervento post terremoto, con opere
strutturali e il restauro dell'intero ciclo pittorico del soffitto.
Umberto Camillo Rodolfo Merlin nacque a Rovigo, il 17 febbraio 1885,
primogenito di Andrea, impiegato, e di Elisa Bisaglia, casalinga.
Coetaneo e compagno di classe di Giacomo Matteotti (frequentano entrambi il Liceo Classico "Celio" di Rovigo), si laurea in legge a Padova nel 1906.
A soli 15 anni diventa presidente dei giovani democratico-cristiani associati nel circolo San Francesco
di Rovigo. Il suo progetto politico era quello di creare associazioni
omologhe a quelle socialiste e repubblicane e coinvolgere le Casse
Rurali quali soggetti attivi nella trasformazione economica delle
campagne.
L'attività di Merlin fu notata ed apprezzata da Giuseppe Toniolo che lo avrebbe voluto con sé a Firenze tra i membri laici del primo nucleo della costituenda Unione Popolare.
Alle elezioni politiche del 1913, nelle quali i cattolici non potevano ancora direttamente partecipare, ma con il Patto Gentiloni
si impegnavano ad appoggiare gli esponenti liberali, Umberto Merlin
svolse la campagna elettorale a favore dell'esponente liberale Ugo Maneo presso il quale in quel periodo svolgeva opera di praticantato presso il suo studio di avvocato.
Ugo Maneo risultò vincente al ballottaggio con il socialista Galileo Beghi
ma l'anno successivo dovette cedere il seggio di Montecitorio a
quest'ultimo in seguito all'accoglimento del ricorso presentato
dall'esponente socialista.
A causa di questa sconfitta, i rapporti tra liberali e cattolici si
deteriorarono e da parte dei cattolici era sempre più sentita l'esigenza
di diventare parte politica attiva.
Allo scoppio della prima guerra mondiale Merlin entra nel Regio Esercito con il grado di tenente. Nel 1919 è tra i fondatori del Partito Popolare insieme a Luigi Sturzo e ad Alcide De Gasperi di cui diviene membro nella direzione e consigliere nazionale. Secondo Merlin, il Partito Popolare non doveva difendere interessi, ma principi, non la borghesia, ma gli alti valori morali.
Merlin veniva così descritto nel 1919 in un rapporto prefettizio:
... un giovane di molto ingegno, di grande equilibrio morale e
di attività tenace. Egli ha saputo iniziare una organizzazione che è
bene avviata, ma sulla efficacia di essa non possono ancora avventurarsi
giudizi o previsione, perché non si sono ancora avute notevoli
manifestazioni collettive del Partito, ed anche perché, se pure i
principi e le pratiche religiose sono ancora in vigore nel complesso
della Provincia, non è dato di affermare quale influenza ciò possa avere
nel campo politico...
In un articolo pubblicato su Il Popolo, settimanale della Diocesi di Adria, il 3 maggio 1919, così Umberto Merlin racconta la nascita del Partito Popolare:
... In una sera del dicembre 1918 eravamo riuniti a Roma in una trentina di amici per gettare le basi del nuovo Partito. Don Luigi Sturzo
aveva finito di esporci le linee fondamentali del programma: dopo lunga
discussione l'accordo erasi raggiunto. Sturzo, piangendo di commozione,
ci disse che il nostro lavoro era finito, ora toccava ad altri. Il
giorno dopo una commissione di fiduciari avrebbe illustrato al Santo
Padre le nostre proposte: se Egli avesse creduto, i cattolici italiani
avrebbero costituito il loro Partito; se fosse stato di diverso avviso,
essi avrebbero desistito dal loro tentativo, continuando il lavoro
nell'ambito dell'Azione Cattolica.
Viene eletto deputato nel 1919, nel 1921 e nel 1924. Fu tra i
favorevoli all'alleanza tra i popolari ed i fascisti e quando si formò
il governo Mussolini
venne nominato sottosegretario al Ministero delle Terre Liberate dal
Nemico, carica che ricoprì fino al 5 febbraio 1923, giorno in cui il
suddetto dicastero venne soppresso.
Durante il periodo della dittatura fascista svolge l'attività di avvocato. Subito dopo il 25 aprile 1945 rivestì la carica di sindaco
di Rovigo. Nel 1946 viene eletto all'Assemblea Costituente e nel 1948,
per le prime quattro Legislature e fino alla morte, al Senato della
Repubblica.
.........................In
Polesine (come altrove) i socialisti – la cui corrente massimalista,
galvanizzata dalla rivoluzione russa del 1917, aveva raggiunto la
maggioranza – avviarono azioni ispirate a intenti rivoluzionarii, con
scioperi e aggressioni che colpirono anche Merlin, indirettamente (la
notte del 1° gennaio 1920 il suo autista fu percosse la lasciato
malconcio lungo una strada) o direttamente (il 27 settembre, a
Lendinara, durante un comizio socialista il deputato popolare fu colpito
con una bastonata così violenta che perse i sensi, e fu salvato da
Matteotti che fermò l’aggressore e fece ricoverare Merlin in ospedale):
ma si ebbero anche assassinii di persone politicamente vicini agli
agrarii. Naturalmente situazioni del genere stimolarono reazioni
altrettanto violente: e questo aprì spazio al fascismo che si organizzò
per compiere “spedizioni punitive” che furono sostenute dagli agrarii.
Nell’aprile
1921 il primo ministro Giolitti di fronte all’ostilità pregiudiziale
delle sinistre decide lo scioglimento anticipato della Camera, indicendo
nuove elezioni per la metà di maggio. Le squadre fasciste, che già
hanno pressoché annullato l’organizzazione socialista aggredendone i
dirigenti, si rivolgono ora contro il mondo cattolico a Polesella, a
Bergantino, a Contarina, a Bellombra. La competizione elettorale si
svolge con frequenti intimidazioni, tanto che la Commissione
parlamentare e poi la Giunta delle elezioni decidono di annullare
l’elezione di un candidato fascista polesano. Qualche giorno dopo Rovigo
è invasa da squadre fasciste giunte da diversi luoghi del Veneto e dopo
un comizio si disperdono per le vie cittadine alla caccia del clericali
prendendo di mira la sede delle associazioni cattoliche e la casa di
Umberto Merlin; diverse persone vengono bastonate perché portano il
distintivo dell’Azione Cattolica... L’invasione dura tre giorni (gli
squadristi pernottano in aule scolastiche, avendo imposto la sospensione
dell’attività didattica) senza che ci sia intervento della forza
pubblica.
Nel giro
di meno di due anni il fascismo era divenuto un movimento consistente,
raggiungendo più di 300.000 aderenti organizzati e armati: ciò che
permise a Mussolini di pensare e realizzare la “marcia su Roma” (28
ottobre 1922), ottenendo dal re Vittorio Emanuele III l’incarico di
formare il governo. Con straordinaria spregiudicatezza il nuovo primo
ministro gioca con lusinghe e minacce, suscitando in gran parte dei
politici (ivi compreso un uomo esperto come Giolitti) l’impressione di
poter arrivare a porre sotto controllo le “esuberanze” squadriste che,
intanto, tengono a bada i socialisti: per cui non solo i liberali ma
anche i cattolici ritengono opportuno partecipare al governo (Merlin è
sottosegretario alle terre liberate); ma nel 1924, il 26 aprile, le
elezioni sono nuovamente condotte con palesi brogli e violenze: alla
fine di maggio in Parlamento Matteotti denuncia vigorosamente le
irregolarità, consapevole che questo potrà costargli la vita. Qualche
giorno dopo, infatti, ne viene denunciata la scomparsa e presto si
capisce che è stato assassinato, suscitando forte commozione nel Paese:
non abbastanza forte, tuttavia, da far crollare il governo fascista. I
parlamentari non fascisti si ritirano dal governo (anche Merlin, dunque)
e dalla stessa presenza in aula, dando vita al cosiddetto “Aventino”,
ma non sanno trovare quel minimo di unità che sarebbe necessaria per
mettere veramente in crisi Mussolini: il quale sa superare le obiettive
difficoltà e, anche facendo leva su un recente, fallito attentato di cui
era stato oggetto, fa approvare, il 9 novembre 1926, la decadenza dal
mandato parlamentare di 120 deputati dell’opposizione (fra cui Merlin)
per poi procedere alla completa “fascistizzazione” dello Stato,
sopprimendo tutti i partiti di opposizione (25 novembre 1926).
Merlin
deve tornare alla vita “civile”, alla sua professione di avvocato; non
per questo rinuncia all’impegno nel mondo cattolico riprendendo i
contatti con l’associazionismo a cui, entrando in politica, aveva dovuto
rinunciare per non coinvolgere la Chiesa in attività ad essa estranee.
Un paio di volte, durante il regime fascista, è fermato perché tenta di
mantenere i contatti con gli amici del disciolto PPI, e una volta, sul
finire degli anni Venti, il suo studio è assediato dagli squadristi.
Dopo il
25 luglio 1943 attorno alla sua persona si coagularono le forze
antifasciste e cattoliche polesane, tanto che fu eletto primo sindaco di
Rovigo dopo il 25 aprile 1945: in quella veste fu lui a tessere
l’elogio funebre del maestro ed amico Ugo Maneo, morto quasi novantenne a
metà luglio di quell’anno.
Terminata
la guerra anche Merlin riprendeva l’impegno politico per il quale si
sentiva chiamato a dare testimonianza. Il 24-27 aprile 1946 si tenne a
Roma, nell’aula magna dell’Università, il primo congresso nazionale
della Democrazia Cristiana. In quell’occasione vennero eletti i 60
consiglieri nazionali del partito, e Merlin fu tra gli eletti. Nel 1949,
quando il Congresso DC (era il quarto) fu tenuto a Venezia, fu eletto
presidente del Congresso.
Nel 1946
era stato eletto, nel collegio di Verona, deputato alla Costituente:
fece parte della prima sottocommissione, incaricata di trattare “Diritti
e doveri dei cittadini” fornendo contributi rilevanti nella proposta e
nella formulazione di alcun articoli della Carta costituzionale: in
particolare l’art. 30 sui diritti e sui doveri dei genitori, l’art. 40
sul diritto allo sciopero regolato dalle leggi, e l’art. 49 sulla difesa
della Patria portano il segno della proposta firmata da Umberto Merlin.
Nel 1948 divenne senatore di diritto per essere stato deputato in
quattro legislature (XXV, XXVI, XXVII e Assemblea Costituente).
Successivamente fu di nuovo eletto al Senato nel collegio di Piove di
Sacco, e ricevette incarichi di governo: fu per De Gasperi ministro
delle Poste e telecomunicazioni nel IV Governo (31 maggio 1947 – 23
maggio 1948) e nell’VIII (16 luglio – 16 agosto 1953); nel successivo
Governo Pella (17 agosto 1953 – 17 gennaio 1954) e nel I Governo Fanfani
(18 gennaio – 9 febbraio 1954) fu ministro dei Lavori pubblici.
Nel
novembre 1951 le rotte dell’argine sinistro del Po prima presso Canaro e
sùbito dopo presso Occhiobello provocarono la disastrosa inondazione
del Polesine. Anche in questa occasione Merlin volle mettersi a
disposizione della propria terra, ma – come risulta dalla testimonianza
di Giuseppe Brusasca – il primo ministro Alcide De Gasperi ritenne non
opportuno accogliere quella disponibilità: “per forza di cose, con i
problemi che si sarebbero dovuti affrontare, sarebbe stato necessario
assumere decisioni dure, anche impopolari. De Gasperi riteneva che non
fosse giusto far pagare a Merlin un prezzo così alto. La scelta dunque
cadde su di me...”. Merlin era fra coloro che ritenevano necessario
tagliare la Fossa di Polesella per consentire all’acqua di defluire al
mare: provvedimento che venne attuato il 23 novembre, con un ritardo che
aggravò il danno prodotto dall’evento. Purtroppo negli anni successivi
altre rotte del Po si verificarono nella zona del Delta, e anche in
queste occasioni Merlin si batté perché si provvedesse ad una
sistemazione organica della parte terminale del fiume.
Continuò
a dominare incontrastato la scena politica in Polesine attraverso la
presenza nel Consiglio comunale del capoluogo e nel Consiglio
provinciale. L’ultimo atto politico all’interno del suo partito fu
compiuto da Merlin in occasione del Congresso Nazionale di Firenze, nel
1959: fu infatti l’unico esponente storico a dare il proprio appoggio
alla mozione presentata da Amintore Fanfani.
Morì a Padova, dove da tempo aveva ufficialmente trasferito la residenza, il 22 maggio 1964.
Edificata nel 1570. Fondata nel 1599. Consacrata nel 1599 da Mons. Fontana. Eretta nel 1932.
STORIA
Nel
sec. X la chiesa di S. Michele era priorato dell'Aula Regia di
Comacchio, con cura di anime, poi dal sec. XI passò a S. Genesio di
Brescello. Dal sec. XIV divenne di giuspatronato del casato Canani ed in
seguito di quello Berni. Nel 1933 l'Arcivescovo mons. Ruggero Bovelli
provvedeva a trasportare il priorato di S. Michele nella chiesa del
Gesù, definendo la circoscrizione parrocchiale, approvata dal Ministero
degli Interni con D.L. 23 maggio 1935. Il primo parroco fu mons. Carlo
Ghinelli, che rinunciò a tale incarico nel marzo 1947. Il medesimo
arcivescovo Bovelli affidò la parrocchia "ad nutum S. Sedis" ai padri
della Compagnia di Gesù, conferendo il titolo di parroco a p. Silvio
Piccardi. Nel 1979 i padri gesuiti lasciarono il governo della
parrocchia e lo riconsegnarono alla diocesi. Con decreto
dell'arcivescovo mons. Luigi Maverna del 26 settembre 1986, riconosciuto
dal Ministero dell'Interno, alla parrocchia di S. Michele nel Gesù fu
data la nuova denominazione di "Parrocchia del Gesù" con sede in
Ferrara, via Previati n. 21. La chiesa del Gesù fu fatta erigere nel
1570 dai duchi estensi col concorso di privati cittadini per i gesuiti
(giunti a Ferrara nel 1551 su invito del duca Ercole II d'Este per
istituirvi un collegio destinato all'educazione dei giovani) e venne
consacrata dall'arcivescovo Giovanni Fontana nel 1599. In questa chiesa
fu sepolta Barbara d'Austria, penultima duchessa di Ferrara morta nel
1572. Vi è conservato pure un quattrocentesco pregevole Compianto sul
Corpo di Cristo, costituito da statue policrome, e conosciuto come
Pianzun dla Rosa, perché originariamente si trovava nella chiesa di S.
Maria della Rosa, distrutta durante l'ultima guerra. Anche questa chiesa
fu gravemente danneggiata dai bombardamenti del 1944 e subì ingenti
restauri. La Compagnia del Gesù fu soppressa nel 1773 e la chiesa e
l'annesso collegio passarono ai padri somaschi. Al tempo
dell'occupazione francese il collegio fu sede di tribunale, ospedale e
carcere ed i gesuiti,ripristinati, chiesti di nuovo e un' altra volta
espulsi, ritornarono nel 1847 e vi continuano a dimorare sino al 1979.
Cronotassi
Serafinelli
S.J. Pietro (1970-1979), Pes S.J. Ernesto (1963-1970), Velletrani S.J.
Pietro (1953-1963), Piccardi S.J. Ottorino (1947-1953), Ghinelli Carlo
(1935-1947), Roveroni Giuseppe (-1907).
Il mito di Ferrara tra
storia, arte, architettura, biciclette e il Rinascimento italiano: non è
un caso che l’Unesco l’abbia scelta per il grande patrimonio artistico
ed architettonico e che anche Gabriele D’Annunzio l’abbia celebrata nelle sue Laudi. A voler guardare un po’ oltre ai tradizionali circuiti turistici che rivelano le maggiori attrazioni cittadine, si può intraprendere un tour di Ferrara andando alla scoperta di alcune particolarità e curiosità. Come quella celata nella Chiesa del Gesù.
Edificata per i Gesuiti nel 1570 su progetto dell’architetto Alberto
Schiatti, la chiesa presenta una facciata semplice ed austera, in
laterizio, divisa in due parti con tre portali decorati in marmo.
L’interno ha subito numerose trasformazioni e distruzioni, per questo è privo di pitture alle pareti: si presenta a navata unica e conserva pregevoli opere d’arte, tra cui l’Annunciazione di Giuseppe Mazzuoli conosciuto
come il Bastarolo, che si trova nella prima cappella a destra e che è
anche l’autore del Dio Padre benedicente nella prima cappella a
sinistra; le due pale del bolognese Giuseppe Maria Crespi che
raffigurano la Comunione di San Stanislao Kostka alla presenza di San
Luigi Gonzaga e il Miracolo di San Francesco Saverio, rispettivamente
nella seconda e nella terza cappella a destra. Particolarmente
interessante, alla sinistra dell’ingresso, è il gruppo scultoreo quattrocentesco in terracotta policroma del Compianto sul Cristo Morto di Guido Mazzoni, a cui è legata una particolarità.
La
tradizione, infatti, vuole che i personaggi in lacrime attorno al corpo
di Gesù rappresentino i membri della corte e, in particolare, le due statue all'estrema destra raffigurerebbero Ercole I e sua moglie Eleonora d'Aragona.
Sette statue in varie posture circondano il corpo del Cristo morto, di
cui si riconoscono, da sinistra: Nicodemo, con in mano un vasetto che
rappresenta i profumi che, secondo i Vangeli, egli portò per ungere il
corpo; la Maddalena, Salomè, Maria di Cleofa e Giuseppe Arimatea, con in
mano tre chiodi a memoria del fatto che fu lui ad ottenere da Ponzio
Pilato il permesso di togliere dalla croce Gesù e seppellirlo.Tutte le
figure sono rese con intenso realismo e le loro espressioni vanno dalla
disperazione della Madonna e della Maddalena, al dolore trattenuto di
Giovanni e Salomè, alle espressioni serie ma distaccate degli altri
personaggi. Sembra, quindi, che Maria di Cleofa e Giuseppe di Arimatea
avrebbero avuto come modelli la duchessa Eleonora e il duca Ercole I, il
che conferisce all’opera un’aurea ancora più particolare.
Da Innsbruck alla Corte Estense Barbara d’Austria sposa politica
Micaela Torboli
La duchessa chiamata regina legata
alla vita spirituale più delle sorelle monache. Morì a 33 anni, è sepolta
alla chiesa del Gesù: la tomba ai più è quasi invisibile.
Ferdinando I d’Asburgo, figlio di Filippo il Bello e di Giovanna la
Pazza, era fratello dell’imperatore Carlo V, e divenne a sua volta
imperatore d’Austria e re di Boemia e d’Ungheria. Dalla moglie Anna
Jagellone ebbe quindici figli, tra i quali dieci furono femmine. Alcune
di esse si maritarono con nobili italiani: nel 1565 a Ferrara giunse
sposa al duca Alfonso II la giovane Barbara d’Austria, nata a Vienna nel
1539.
INDOLE TENERA
Bionda, ma non bella, aveva
ereditato il “mento asburgico”, una malformazione genetica che i medici
chiamano progenismo. Il duca, vedovo, non era in grado di rendere madre
la sposa, come tutti ben sapevano, ma le nozze Este-Asburgo erano più
che altro una mossa politica, e se poi avesse anche prodotto un erede –
ipotesi piuttosto remota – tanto meglio. A Ferrara Barbara non veniva
chiamata duchessa o arciduchessa, ma regina. Era quasi più religiosa
delle sue tre sorelle monache, la vita spirituale per lei vinceva su
ogni altro aspetto. Si intese quindi alla perfezione, malgrado i diversi
orientamenti reciproci sul piano della fede, con la pugnace suocera
Renata di Francia, con la quale scambiava molte lettere, e che per il
suo credo calvinista aveva sacrificato la tranquillità personale, ed era
stata esiliata nel suo paese natale dal figlio, che non voleva avere
altri guai con il papa, oltre a quelli che sua madre aveva creato in
passato. Il duca di Ferrara, uomo galante, atletico e sobrio, fu molto
amato da Barbara. Di questo lato tenero della indole di lei, al pari
generoso con i derelitti, sono testimoni anche gli accenni in diverse
opere che le dedicò Torquato Tasso. Barbara era di salute malferma.
DOPO IL SISMA
Cresciuta nell’aria
pura e frizzante di Innsbruck, il pessimo clima di Ferrara le sarebbe
stato fatale, specie dopo il terremoto del 1570, che costrinse la corte a
vivere a lungo all’addiaccio, in pieno inverno e oltre. Fu il colpo di
grazia. Barbara morì il 19 settembre 1572. Gli Estensi, indifferenti
alle tombe monumentali predilette da altre casate, a parte pochi casi
scelsero sepolture semplicissime. Per Barbara si fece un’eccezione: ebbe
un sepolcro regale, almeno nelle intenzioni. Era vicina ai Gesuiti, il
cui Ordine permise che venisse inumata nella loro chiesa di Ferrara,
«nel nichio della Capella maggiore» (M. A. Guarini, 1621), insomma
dietro l’altare centrale. La tomba è attribuita all’oscuro Francesco
Casella da Carona, che fece un pessimo lavoro. L’insieme, «ornato di
variati marmi, e statue, con la effigie di lei al naturale» (ancora
Guarini) è disomogeneo e tremendamente enfatico. Si trova nella chiesa
del Gesù (via Borgoleoni, 56) e la collocazione fa sì che resti
seminascosta, quindi ben pochi si accorgono della sua esistenza. Povera
Barbara.
La Confraternita delle stimmate. Dall’inquieto mistico antisemita ai frati pietosi col volto coperto
Resta ignoto l’autore del progetto dell’edificio. Al suo interno il Guercino dipinse una pala d’altare
La
chiesa ferrarese dedicata alle Sacre Stimmate di san Francesco d’Assisi
angola una posizione strategica tra la piazza Nova (poi Ariostea) e la
Strada di san Guglielmo (oggi via Palestro). L’autore del progetto
sfugge ancor oggi, ma non era certo un genio. Fu pensata per soddisfare
le esigenze pie della Confraternita omonima, che voleva ampliare la
propria influenza in città fin dai primi del Seicento. La Confraternita
si era formata a Roma alla fine del XVI secolo. Si rinsaldò allora il
culto delle stimmate (o stigmate), i “marchi” che il santo di Assisi
portava sul suo corpo come riflesso della venerazione per Gesù torturato
e crocefisso.
MIRACOLI
Le Stimmate vennero adorate
per se stesse: dal Medioevo nell’ambito dell’Ordine francescano, dal
tempo della Controriforma si attuò un solenne allargamento a tutti i
fedeli, con una festa dedicata dal 1586, il 17 settembre. La spinta più
forte per questi riconoscimenti venne appunto dai francescani
osservanti. Le confraternite scaturite dal culto imbastirono una rete di
sodalizi ispirati al miracolo. Un ottimo lavoro dedicato a queste
realtà è quello di Alessandro Serra in «Rivista di storia e letteratura
religiosa» 18, (2012).
ANTISEMITISMO
Il più impegnato su
quel fronte fu fra Bartolomeo Cambi da Salutio (la cui famiglia era
originaria di Salutio di Arezzo, le sue date sono 1558-1617), autore di
testi di intensa spiritualità. Cambi era un inquieto e mistico
francescano, che chiedeva una riforma interna dell’Ordine. Le sue
prediche catturavano le folle: minacciava punizioni celesti per i
peccatori, profezie tremende e castighi durissimi si prospettavano anche
solo per quisquilie come le pettinature frivole, dette “ciuffi”.
Suscitava tensioni tali che gli fu proibita la predicazione a Firenze.
Lì non avevano dimenticato Savonarola. Dal 1602 Cambi si spostò in
continuazione, mettendo in allarme governi e clero locale che temevano
le conseguenze dei suoi sermoni. A Modena fu bloccato, per poi tornarvi.
Il bersaglio preferito del frate erano gli Ebrei. Spandeva un
antisemitismo viscerale.
Cesare d’Este, duca di Modena e già signore di
Ferrara, fu colpito dai suoi strali perché non era abbastanza severo con
gli Ebrei. Giunto a Mantova, Cambi riprese duramente in pubblico il
duca Vincenzo Gonzaga, ancora per via della sua tolleranza verso gli
Ebrei. Durante le prediche mantovane vi furono tumulti, violenze e scene
di isteria collettiva. Gonzaga fece scortare Cambi fuori dai suoi
Stati. Poi, adirato, il sovrano espresse il suo disappunto a papa
Clemente VIII, che si affrettò a scusarsi per quanto accaduto. Cambi
puntò anche su Ferrara, dove ebbe attenzione dalle famiglie ancora in
vista dopo la recente Devoluzione che aveva allontanato gli Estensi
dalla capitale del ducato. Però qui le autorità, preavvisate degli
eccessi del frate, limitarono ogni suo passo, anche se gli fu permesso
di perorare la causa della nuova Confraternita, purché non attaccasse
gli Ebrei.
SILENZIO E UMILTA'
Dopo molte
traversie e sedi precarie, morto ormai fra Bartolomeo, nel 1621 un nuovo
oratorio dedicato alle Stimmate prese forma a Ferrara. Dal 1604 un
oratorio simile si era organizzato anche a Comacchio e lo storico Ferro
(1701) lo definisce «segreto». Forse le pratiche di estremi esercizi
spirituali in stile Cambi venivano condotte senza clamore, per non
suscitare allarme. Scalabrini descrisse nel 1773 i confratelli di
Ferrara: «Vestono un sacco di lana bigia col volto coperto, cinti di
fune, con Croce rossa al braccio, corona in mano piedi ignudi con
solette legate di cuoio all’Appostolica». Dovevano essere pietosi,
visitare i malati, seppellire i morti, osservare silenzio ed umiltà.
Alla chiesa vennero annesse sale per le riunioni confraternali e locali
per scopi caritatevoli ed educativi. Non per nulla all’interno esisteva
un quadro dedicato a san Giuseppe Calasanzio (1557- 1648), fondatore
degli Scolopi, educatori delle Scuole Pie.
TELE E TAVOLE
Il santo
spagnolo aveva rapporti epistolari con il capitano Francesco Maria
Mastellari di Pieve di Cento (ma impegnato in cariche ferraresi), come
dimostra il suo epistolario, pubblicato qualche anno fa da P. Leodegario
Picanyol. Il capitano era amico e committente del Guercino: e per la
chiesa delle Stimmate venne dipinta una ammirevole pala dell’artista
centese, San Francesco stimmatizzato (1632), offerta
materialmente dal conte Cesare Estense Mosti, tuttavia forse Mastellari
entrò in qualche modo nella cosa. Anche Carlo Bononi ha lasciato tele e
tavole alle Stimmate, in specie risalta il drammatico Compianto detto talora Pietà
(1624), in cui Maria pare abbia le fattezze della nipote del pittore,
sempre cupa e melanconica a parere di chi la conobbe. Alle Stimmate,
capsula del tempo, furono sepolti personaggi della nobiltà, ma anche tre
artisti della Ferrara barocca, purtroppo negletti ma molto
interessanti, cioè Alfonso Rivarola detto Chenda, Francesco Costanzo
Catanio e Giacomo Parolini. —
Da
documenti della famiglia dei marchesi Revedin si rileva che la località
era denominata Tenuta Sammartina in localita S. Martino della Pontanara
di proprietà della casa d'Este fino alla fine del sec. XVIII. Molti
furono i passaggi di cessione avvenuti fino all'atto di acquisto dei
primi anni del sec. XIX da parte dei fratelli Antonio e Francesco
Revedin. È da notare che in tutti gli atti di passaggio è sempre fatta
menzione all'oratorio della Sammartina, ampliato nel 1860 dal marchese
Giovanni Revedin. La località fu in seguito denominata Chiesuol del
Fosso e fu eretta parrocchia sotto il titolo di S. Maria dei Revedin.
La prima citazione documentale relativa alla chiesa dell'Assunzione
di Maria Santissima, a Chiesuol del Fosso, risale al 1506, e viene
ricordata anche da Marcantonio Guarini nel suo Compendio historico dell'origini, accrescimento e prerogative delle chiese e luoghi pii della città, e diocesi di Ferrara
edito nel 1621. La piccola chiesa venne descritta in località
Sammartina, perché tale era la denominazione locale al tempo, e fu
eretta prioritariamente per officiarvi le funzioni religiose agli operai
qui trasferiti per la costruzione di rinforzi all'argine del fiume
Reno. In seguito fu utilizzata dai fedeli della comunità.
Entrò nel patriminio della famiglia Revedin nel 1808 e, nel 1860, venne ampliata e fu edificata la torre campanaria.
Ebbe dignità parrocchiale dal 1923 e come tale, ai fini civili, venne riconosciuta anche da Vittorio Emanuele III nel 1925.
Nel primo dopoguerra fu oggetto di due diversi interventi
restaurativi, nel 1923 e nel 1933. Nel primo caso fu interessato il
campanile mentre nel secondo fu la volta del soffitto della navata,
della copertura dell'edificio e della parte superiore della facciata.
Gli ultimi restauri conservativi si sono avuti tra il 1990 e il
2000. In quest'occasione sono stati riviste le parti murarie e, di
nuovo, la facciata. i muri della chiesa e la facciata.
FERRARA - PROVERBI IN DIALETTO FERRARESE E MODI DI DIRE (4)
Proverbi d' Istà
ZUGN
Porta la spiga in t' al mulin par la farina, al fior e al semulin.
LUI
Ah, ch' bel mes pr' al mié paes: par chi è sgnor e par chi è senza quatrin; as va ai bagn, in muntagna e......si zardin.
AGOST
Ah, San Lurenz da la gran caldura; chi an gh' à baioch, vada s' la mura.
MOD AD DIR
Spianar un vestì (Rinnovare un vestito)
Urecia stanca, parola franca; urecia drita, parola mal dita. (E' superstizione popolare che, se fischia l'orecchio sinistro, alcuno dice bene di noi; se fischia l'orecchio destro, alcuno dice male)
Proverbi:
Quand a manca al gatt, i puntagh i bala. (Quando mancano i padroni, i servi fanno il loro comodo)
Alcune sere fa, per commemorare Alan Delon, è stato riproposto il film "Il Gattopardo" e, sarà una sciocchezza, ma i garibaldini sventolavano la bandiera tricolore senza lo stemma di Savoia al centro.
Il Tricolore nell'Italia unitaAl centro della bandiera era collocato lo stemma di Casa Savoia, uno scudo rosso con una croce bianca.
Nel 1861, quando fu proclamato il Regno d'Italia, questa bandiera fu
adottata ufficialmente e restò l'emblema del Paese fino alla
proclamazione della Repubblica nel 1946.2 giu 2022
La bandiera del Regno di Sardegna (1851-1861), che poi diventò il vessillo del Regno d'Italia (1861-1946)