16/07/2014
Un giovanotto è stato accoltellato vicino alla stazione di Napoli
da un gruppo di ragazzi del luogo perché aveva l’accento romano. Nel
vibrare il colpo gli hanno gridato: «Questo è per Ciro», con ciò
attribuendosi una patente di vendicatori che nei loro codici deve
risuonare particolarmente nobile. Ciro è il tifoso napoletano ucciso per
strada a Roma da un ultrà.
La morte di quel povero ragazzo ha messo in moto il meccanismo
tribale che ci portiamo dentro come una maledizione: l’elegia della
vendetta. Ce la iniettano a piccole dosi fin dall’infanzia: nei
proverbi, nei film e nei telegiornali, che da decenni dedicano uno
spazio inesorabile alla faida israelo-palestinese, dove a ogni brutalità
segue una brutalità di segno opposto e tutti si sentono giustizieri,
mentre sono anche carnefici.
Un po’ ovunque nel mondo, la vendetta viene non solo giustificata, ma
considerata necessaria per ristabilire l’equilibrio violato. Chissà
cosa succederebbe se una delle due fazioni, in Palestina come più
modestamente sulla tratta Roma-Napoli, reagisse all’ennesimo agguato
dicendo: «Vi perdoniamo». Non potremo saperlo mai, probabilmente. Solo
immaginarlo. Immaginare la sorpresa della controparte, lo
scompaginamento di ogni schema prefissato, la vita che smette di essere
un susseguirsi di azioni e reazioni per diventare un gioco diverso, dove
l’uomo resiste all’impulso negativo e lo trasforma di segno. Non
sarebbe una scelta molto più risolutiva di una banale vendetta, che
offre soltanto un pretesto al prossimo oltraggio da vendicare?
Massimo Gramellini, La Stampa 16/7/2014
Nessun commento:
Posta un commento