mercoledì 31 marzo 2010

Ossimoro

L'Ossimoro.
I francesi lo chiamano "alleanza di parole", ma è una alleanza tra nemici perché si tratta di termini contrari, artificiosamente uniti per ottenere un particolare effetto narrativo.
Esempio: il silenzio eloquente dell'imputato dopo la letture dei capi d'accusa; il muto dialogare degli sguardi di due innamorati; ghiaccio bollente detto dell'attrice Anita Ekberg.
Nel linguaggio politico meritano menzione, per la loro spavalderia antigeometrica, le convergenze parallele, e per l'audace sfida alle leggi della fisica l'immobilismo dinamico.
Gli antichi romani raccomandavano festina lente, affrettati lentamente.
Insomma l'ossimoro, pur di ottenere un effetto d'arte, calpesta quel fondamentale principio della logica, per il quale una cosa non può essere uguale al suo contrario. E' certamente la più folle delle figure retoriche: Non per nulla, secondo alcuni etimologisti, vorrebbe dire (solita derivazione dal greco) "acutamente pazzo".

mercoledì 24 marzo 2010

Otello Putinati

Nato a Ferrara il 25 agosto 1899, deceduto a Bologna il 19 dicembre 1952, operaio e dirigente politico e sindacale.
Cominciò a lavorare, giovanissimo, da pastaio. Chiamato alle armi durante la guerra 1915-18, fu ferito in combattimento. Nel dopoguerra, Putinati s’impegnò nell’attività politica e nel 1921 fu tra i primi dirigenti della Federazione comunista, incaricato di curare il lavoro giovanile.
Dopo l’avvento del fascismo divenne segretario della Federazione e passò alla lotta clandestina.
Nell’ottobre del 1927, dopo la promulgazione delle “Leggi eccezionali”, il primo arresto con altri comunisti ferraresi e bolognesi e la prima sentenza del Tribunale speciale che, il 19 febbraio 1929, lo condannò a 2 anni di reclusione.
Scontata la pena Putinati tentò un collegamento con il Centro estero del suo partito a Parigi, ma fu di nuovo arrestato e processato. Questa volta la condanna fu a 4 anni di carcere, non tutti scontati per l’amnistia del decennale.

Nel 1933 nuovo arresto e terza condanna: 16 anni di reclusione. Rinchiuso nel carcere di Pianosa, l’indomito comunista vi restò 6 anni e quando uscì e tornò nella sua città, fu sottoposto a continua sorveglianza e a frequenti arresti.
Anche durante i quarantacinque giorni del Governo Badoglio la polizia non lo perdette di vista, ma lui (in condizioni di semiclandestinità), continuò il lavoro di organizzazione della struttura comunista ferrarese. Il giorno dopo l’annuncio dell’armistizio, Putinati guidò l’imponente manifestazione popolare che si svolse a Ferrara per la pace e contro l’occupazione tedesca.

Per ragioni di sicurezza il PCI lo inviò ad operare nel Modenese e nel Reggiano, ma agli inizi del 1945 ecco di nuovo Putinati a Bondeno dove diresse quel CLN e dove fu tra i promotori della manifestazione contro la guerra che si svolse nella piazza antistante quel Municipio.
Dopo aver preparato l’insurrezione di Reggio Emilia, a Putinati toccò, dopo la Liberazione di Ferrara, l’incarico di segretario della Camera del Lavoro di quella provincia.

Nel 1946, eccolo consigliere al Comune di Ferrara e, nelle elezioni del 1948 per il primo Parlamento repubblicano, fu eletto senatore nelle liste del Fronte democratico popolare.
Nel 1949, Otello Putinati fu nominato segretario della Federazione lavoratori edili della CGIL e nell’ottobre successivo diresse di nuovo, sino a che non morì prematuramente, la CdL di Ferrara.
La sua città natale gli ha dedicato una strada. Portano il suo nome una Polisportiva ferrarese e anche un classico Trofeo di bocce, intitolato “Senatore Otello Putinati”.
Sul muro della casa che Putinati abitò nel popolare Borgo ferrarese di San Luca, c’è una lapide con questa epigrafe: “Cittadino ricorda/ che il fascismo non è caduto da solo/ che da solo non sorgerà un mondo migliore. / Per questo/ Otello Putinati/ poco dimorò/ nella povera esistenza di questa casa/ ove pure lo chiamava l’affetto dei suoi cari/ ma fuori, nelle lotte/ con gli umili, con gli operai, con gli oppressi/ visse indomito fra l’uno e l’altro carcere/ fino alla morte.”

La lapide si trova a Ferrara in Via O.Putinati n. 1.

martedì 23 marzo 2010

BEPPE FENOGLIO

Nato ad Alba (Cuneo) il 1° marzo 1922, morto a Torino il 18 febbraio 1963, scrittore.
Studente universitario, nel 1943 si trovava a Roma come allievo ufficiale dell'Esercito. All' armistizio tornò nella sua città natale. Quando Enrico Martini Mauri organizzò le formazioni partigiane Autonome, vi aderì con entusiasmo, assumendo il ruolo di ufficiale di collegamento. Fenoglio partecipò alla guerra di liberazione nelle Langhe e fu tra i partigiani che il 10 ottobre del 1944 entrarono in Alba, proclamando una repubblica antifascista che durò 23 giorni.

Nel dopoguerra, Fenoglio visse lavorando come impiegato in un'azienda locale e scrivendo libri e racconti, in gran parte ispirati alla Resistenza e alcuni dei quali usciti postumi.
Tra le sue opere: "I ventitré giorni della città di Alba" (Torino 1952), "La malora" (Torino 1954), "Primavera di bellezza" (Milano 1959), "Un giorno di fuoco" (Milano 1963), "Il partigiano Johnny" (Torino 1968), "La paga del sabato" (Torino 1969). Da "Il partigiano Johnny", il regista Guido Chiesa ha tratto il film dal titolo omonimo presentato alla Mostra del cinema di Venezia del 2000.

Il 10 marzo 2005, all'Università di Torino, a Beppe Fenoglio è stata conferita la laurea "honoris causa" in Lettere alla memoria.










sabato 20 marzo 2010

Benedetto Dalmastro

Nato a Cuneo il 1° marzo 1907, morto a Cuneo il 21 novembre 1975, dirigente industriale.
Richiamato come ufficiale di complemento, l'8 settembre 1943 Dalmastro si trovava nella caserma "Cesare Battisti" a Cuneo, sede del 2° Reggimento Alpini, a due passi dalla casa dell'amico Duccio Galimberti. Frenetici contatti tra i due e poi un gruppo di ufficiali decide di raggiungere le montagne. Una parte va con Galimberti in Val di Gesso, gli altri ufficiali - tra i quali Giorgio Bocca, di cui Dalmastro sposerà poi la sorella - seguono "Detto" (questo il nome di Dalmastro tra gli amici e durante la Resistenza), in Valle Grana.

Nascono così la prime formazioni di "Giustizia e Libertà". Diventeranno poi le Divisioni e che avrebbero dato un gran filo da torcere ai nazifascisti. Anche perché "Detto", grande organizzatore, sarebbe riuscito a realizzare un'intesa con i "maquisards" francesi, siglata con Galimberti il 22 maggio 1944.
Comandante della II Divisione Alpina "GL" del Cuneese fin dalla sua costituzione, "Detto" alla fine del marzo 1945 fu nominato commissario politico del 1° Gruppo Divisioni "GL" che erano state intitolate a Duccio Galimberti.
 Subito dopo la Liberazione resse la segreteria organizzativa torinese e piemontese nel Partito d'Azione. Nel 1947, allo scioglimento di quel partito, Dalmastro entrò nel Partito socialista, nel quale sarebbe restato sino alla morte, che lo colse nel pieno della sua attività di dirigente industriale, svolta alla testa delle "Cartiere Burgo" e di numerose altre società, tra cui la Cassa di Risparmio di Cuneo.
 L'attività professionale non limita quella in campo politico-culturale di "Detto". Dal 1964 è presidente dell'ANPI di Cuneo. Nel ventennale della Liberazione dà vita all'Istituto storico della Resistenza di Cuneo. Presiede sino alla morte, succedendo a Franco Antonicelli, l'Archivio nazionale cinematografico della Resistenza. Un turbinio d'impegni, tra i quali risalta quello per far erigere, a Cuneo, il "Monumento alla Resistenza Italiana", opera di Umberto Mastroianni.

Giorgio Bocca

Nato a Cuneo il 18 agosto 1920, giornalista e scrittore, Medaglia d'argento al valor militare.
Cresciuto in una famiglia della piccola borghesia piemontese (padre e madre erano insegnanti), Bocca frequentò la Facoltà di Giurisprudenza. Anche in virtù della sua attività sportiva e dei successi nello sci agonistico, era assai conosciuto negli ambienti del Guf cuneese. Chiamato alle armi, allievo ufficiale di complemento negli alpini, nel 1943 Bocca decide di aderire, nella clandestinità, al Partito d'azione. A questa scelta lo induce sicuramente l'esempio dell'amico Benedetto "Detto" Dalmastro, assai vicino a Tancredi "Duccio" Galimberti.
L'8 settembre, alla firma dell'armistizio, raggiunge (con Dalmastro e un gruppo di compagni, dopo aver raccolto le armi abbandonate nelle caserme di Cuneo), la frazione Lise di Monterosso Grana. Nasce così il primo nucleo della locale banda partigiana di “Italia Libera”. Comandante di banda della formazione in Valle Maira, nella primavera del 1944 Bocca é inviato a stabilire le basi della Brigata Giustizia e Libertà “Rolando Besana” in Valle Varaita e ne diviene il comandante.
Il 5 di maggio, con Benedetto Dalmastro, Luigi Ventre e Costanzo Picco partecipa, al Col Soutron, a un incontro con il maquis francese della Seconda Regione (Alpi Marittime). All'incontro faranno seguito le intese politico-militari tra i due movimenti, stipulate a Barcelonnette (Valle dell'Ubaye) il 22 maggio e a Saretto (Val Maira) il 30 maggio. Nei primi giorni del 1945 Bocca è nominato comandante della decima divisione Langhe delle formazioni “GL”. Torna quindi in Val Maira, divenendo commissario politico della seconda Divisione “GL”. Tra le sue numerose azioni, si ricorda quella che tra il 12 e 13 aprile conduce alla cattura, nella cittadina di Busca, della compagnia controcarro della Divisione “Littorio” della RSI.
Dopo la Liberazione, Bocca si avvia alla carriera di giornalista , dapprima a Torino, nel quotidiano di Giustizia e Libertà e quindi, a Milano, come redattore del settimanale Europeo e come corrispondente del quotidiano torinese La Gazzetta del Popolo. Quando nasce Il Giorno, nel 1956, ne diviene inviato. Passa quindi a la Repubblica. Il suo è un giornalismo militante, che attraverso reportage, inchieste, commenti e interviste, si propone di denunciare i guasti della società italiana. La sua critica si accentua negli anni più recenti, forte di una scrittura semplice ma dura, concreta e aspra, di intensa comunicazione, sostenuta da un'alta moralità e da un legame mai interrotto con l'esperienza resistenziale.
I suoi articoli sono diventati, spesso, traccia e ossatura dei suoi numerosi libri, tra reportage, ricerca storica, pamphlet e autobiografia. Citiamo: Storia dell'Italia partigiana (1966), Storia d'Italia nella guerra fascista (Laterza, 1969/ Mondadori, 1995)), Palmiro Togliatti (Laterza, 1973/ Mondadori, 1996), La Repubblica di Mussolini (Laterza, 1977), Italia, anno uno (Garzanti, 1984), Noi terroristi (1985), L'Italia che cambia (Garzanti, 1987), Gli italiani sono razzisti? (Garzanti, 1988), La disunità d'Italia (Garzanti, 1990), l'autobiografico Il provinciale. Settant'anni di vita italiana (Mondadori, 1992), L'inferno. Profondo sud, male oscuro (Mondadori, 1992), Metropolis (Mondadori, 1993), Il sottosopra (Mondadori, 1994), Il filo nero (Mondadori, 1995), Il viaggiatore spaesato (Mondadori, 1996), Italiani strana gente (Mondadori, 1997), Voglio scendere (Mondadori, 1998), Il secolo sbagliato (Mondadori, 1999), Pandemonio (Mondadori, 2000), Il dio denaro (Mondadori, 2001), Piccolo Cesare (Feltrinelli, 2002), Basso impero (Feltrinelli, 2003), Partigiani della montagna (Feltrinelli, 2004), L'Italia l'è malada (Feltrinelli, 2005), Napoli siamo noi (Feltrinelli, 2006), Le mie montagne (Feltrinelli, 2006).

Duccio Galimberti

Nato a Cuneo il 30 aprile 1906, ucciso a Centallo (Cuneo) il 4 dicembre 1944, avvocato, Medaglia d'oro della Resistenza, proclamato Eroe nazionale dal CLN piemontese, Medaglia d'Oro al Valor Militare alla memoria.

Suo padre, Tancredi, era stato ministro delle Poste con Giovanni Giolitti e poi senatore fascista; la madre, l'inglese Alice Schanzer, era una poetessa. A Duccio erano stati imposti i nomi di Tancredi, Achille, Giuseppe, Olimpio, ma per tutta la vita sarebbe stato, appunto, Duccio, il vezzeggiativo familiare che gli è rimasto pure e, soprattutto, dopo la morte, anche se per un certo periodo nella Resistenza fu conosciuto come professor Garnera. Duccio, considerato un valente penalista già in giovane età, non venne mai, nonostante la posizione del padre, a compromessi con il fascismo. Quando giunse il momento della leva, non poté fare il corso di allievo ufficiale perché per frequentarlo avrebbe dovuto iscriversi al fascio; fece così il servizio da soldato semplice.
Negli anni tra il 1940 e il 1942 tentò di organizzare a Cuneo, lui mazziniano fervente, gli antifascisti del luogo. È con la caduta di Mussolini che Duccio viene clamorosamente allo scoperto: il 26 luglio del 1943 arringa la folla dalla finestra del suo studio che dava sulla Piazza Vittorio a Cuneo; nello stesso giorno parla in un comizio a Torino. Riferendosi al proclama del generale Badoglio grida: "Sì, la guerra continua fino alla cacciata dell'ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia del regime fascista…". Queste parole gli valgono subito un mandato di cattura delle autorità badogliane, che sarà revocato soltanto tre settimane dopo.
L'8 settembre lo Studio Galimberti a Cuneo si trasforma in centro operativo per l'organizzazione della lotta armata popolare, dopo che Duccio non riesce a convincere il Comando militare di Cuneo ad opporsi in armi ai tedeschi. Tre giorni dopo Galimberti, con Dante Livio Bianco ed altri dieci amici è già in Val di Gesso, dove costituisce il primo nucleo della banda "Italia Libera" (analoga banda viene formata in Valle Grana da Giorgio Bocca, Benedetto Dalmastro ed altri amici di Duccio), dalla quale nasceranno le brigate di Giustizia e Libertà.
Nel gennaio del 1944 Duccio, durante un rastrellamento, viene ferito; è curato sommariamente da una dottoressa, ebrea polacca, sfuggita ai nazisti e riparata tra i partigiani. Ma le ferite sono troppo gravi e Galiberti viene trasportato, su una slitta, sino all'ospedale di Canale. Quando si ristabilisce, viene nominato comandante di tutte le formazioni GL del Piemonte e loro rappresentante nel Comitato militare regionale. In tale veste, il 22 maggio del 1944, conclude a Barcelonette un patto di collaborazione e di amicizia con i "maquisards" francesi. In veste di "diplomatico" tratta pure l'unificazione e il coordinamento delle bande operanti in Val d'Aosta.
Si sposta poi a Torino ed è qui che viene localizzato e bloccato dai repubblichini. È il 28 novembre del 1944. Inutili i frenetici tentativi delle forze della Resistenza di operare uno scambio con i tedeschi. I repubblichini considerano Duccio una loro preda, tanto che quattro giorni dopo, nel pomeriggio del 2 dicembre, un gruppo di fascisti dell'Ufficio politico di Cuneo arriva a Torino e lo preleva dal carcere. Lo trasportano nella caserma delle brigate nere di Cuneo: qui Galimberti viene interrogato e ridotto in fin di vita dalle sevizie, ma non parla.
Il mattino del 4 dicembre, l'eroico comandante di Giustizia e Libertà viene caricato su un camioncino, trasportato nei pressi di Centallo e abbattuto dai suoi aguzzini con una raffica alla schiena.

Piero Calamandrei - "Lo avrai, Camerata Kesserling..."

Piero Calamandrei - "Lo avrai, Camerata Kesserling..."
Processato nel 1947 per crimini di Guerra (Fosse Ardeatine, Marzabotto e altre orrende stragi di innocenti), Albert Kesselring, comandante in capo delle forze armate di occupazione tedesche in Italia, fu condannato a morte. La condanna fu commutata nel carcere a vita. Ma già nel 1952, in considerazione delle sue "gravissime" condizioni di salute, egli fu messo in libertà. Tornato in patria fu accolto come un eroe e un trionfatore dai circoli neonazisti bavaresi, di cui per altri 8 anni fu attivo sostenitore. Pochi giorni dopo il suo rientro a casa Kesselring ebbe l'impudenza di dichiarare pubblicamente che non aveva proprio nulla da rimproverarsi, ma che - anzi - gli italiani dovevano essergli grati per il suo comportamento durante i 18 mesi di occupazione, tanto che avrebbero fatto bene a erigergli... un monumento.

A tale affermazione rispose Piero Calamandrei, con una famosa epigrafe (recante la data del 4.12.1952, ottavo anniversario del sacrificio di Duccio Galimberti), dettata per una lapide "ad ignominia", collocata nell'atrio del Palazzo Comunale di Cuneo in segno di imperitura protesta per l'avvenuta scarcerazione del criminale nazista. L’epigrafe afferma:

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.

Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio del torturati
più duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA

Testo introduttivo a cura dell'ANPI

venerdì 19 marzo 2010

Piero Calamandrei

Nato a Firenze il 21 aprile 1889, deceduto a Firenze il 27 settembre 1956, giurista e scrittore politico.
Di antica famiglia di giuristi (suo padre, professore e avvocato, era stato anche deputato repubblicano), si era laureato a Pisa nel 1912. Nel 1915 era già docente di procedura civile all'Università di Messina e, tolta la parentesi della prima guerra mondiale, avrebbe insegnato a Modena (1918), a Siena (1920) e, dal 1924 sino ai suoi ultimi giorni, nell'Ateneo fiorentino di cui fu rettore. Interventista, Calamandrei aveva partecipato da volontario alla guerra 1915-18 come ufficiale di Fanteria, ma nonostante la promozione a tenente colonnello, preferì riprendere la carriera accademica.
L'avvento del fascismo lo portò ad impegnarsi contro la dittatura. Di qui la collaborazione con Salvemini e poi con i fratelli Rosselli, con i quali fondò il Circolo di Cultura di Firenze che, nel 1924, dopo essere stato devastato dagli squadristi, fu definitivamente chiuso per ordine prefettizio. La violenza fascista non spaventò il professore, che partecipò alla pubblicazione del Non mollare e all'associazione “Italia Libera”, che avrebbe più tardi ispirato il movimento “Giustizia e Libertà” e poi il Partito d'Azione. Piero Calamandrei, che aveva anche aderito all'Unione nazionale antifascista promossa da Giovanni Amendola e che, nel 1925, aveva sottoscritto il manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, dopo il consolidarsi della dittatura tornò ai suoi studi giuridici (sua è l'Introduzione allo studio delle misure cautelari del 1936), pur mantenendo sempre i contatti con l'emigrazione antifascista.
Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei e membro della regia commissione per la riforma dei codici, fu uno dei principali ispiratori del Codice di procedura civile del 1940. Ciononostante, quando gli fu chiesto di sottoscrivere una lettera di sottomissione a Mussolini, Calamandrei preferì dimettersi dall'incarico universitario, che avrebbe ufficialmente ripreso, come rettore, alla caduta del fascismo. L'atteggiamento dell'eminente studioso, com'ebbe a scrivere Norberto Bobbio, “fu di solitario disdegno...”, poiché “...verso i padroni e i loro servitori, non si saprebbe dire quale dei due detestasse di più”.
Calamandrei, che nel 1942 fu tra i fondatori del Partito d'Azione, dopo 1'armistizio, inseguito da un mandato di cattura, si rifugiò in Umbria. Di qui seguì, “con trepidazione e fierezza”, la nascita e l'espansione del movimento partigiano, mantenendo contatti e collaborando con la Resistenza, nella quale fu particolarmente attivo il figlio Franco.
Dopo la Liberazione, Piero Calamandrei fu nominato membro della Consulta nazionale e dell'Assemblea Costituente in rappresentanza del Partito d'Azione. Quando il PdA si sciolse, entrò a far parte del Partito socialdemocratico, per il quale fu eletto deputato nel 1948. Nel 1953, contrario alla “legge truffa”, sostenuta anche dai socialdemocratici, prese parte, con l'amico Ferruccio Parri, alla fondazione di “Unità Popolare”, che contribuì ad impedirne l'approvazione. Fondatore, del settimanale politico-letterario Il Ponte, che diresse dopo la Liberazione per dodici anni, Piero Calamandrei fu anche direttore della Rivista di diritto processuale, de Il Foro toscano e del Commentario sistematico della Costituzione italiana. Molto apprezzato dai cultori del Diritto, il suo Elogio dei giudici scritto da un avvocato e, memorabile per efficacia, l'epigrafe dettata da Calamandrei per la Lapide ad ignominia, che il Comune di Cuneo ha dedicato al generale nazista, criminale di guerra, Albert Kesselring.

Astrologia

Astrologia.
Dal Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli:
"Arte di antica origine che presume di scoprire influssi degli astri sulla vita umana, al fine di prevedere avvenimenti futuri"
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L'astrologia trae origine dalla superstizione primitiva che attribuiva alle stelle il carattere di divinità che guidavano con il loro potere i destini dei popoli e dei singoli individui. La volta celeste era dunque la sede degli dei, cui la mitologia delle varie civiltà antiche attribuiva nomi vari: Giove era il re, Saturno suo padre, Mercurio il dio dei ladri e dei commercianti, Venere la dea dell'amore, Marte il dio della guerra. La mitologia greca racconta gli amori, le lotte, le gelosie degli dei fra di loro e verso gli uomini.
Oggi si sa che in tutto questo non c'è nulla di vero, ed è impresa assurda voler leggere nelle posizioni e nei movimenti di stelle e pianeti la sorte di ciascuno di noi, anche se qualche astrologo fonda la propria attività su queste credenze.
..........L'astrologia è pura fantasia, un retaggio di antiche credenze, quando non si sapeva niente delle stelle, della loro distanza e composizione chimica, di che cosa le differenzi dai pianeti.
Pertanto l'astrologia non ha nulla a che vedere con la scienza, neanche nel caso in cui gli oroscopi siano fatti al computer; dice un detto inglese "garbage in, garbage out": se nel computer metti spazzatura, spazzatura esce.
Chi si fa guidare dall'oroscopo perde la propria autonomia; ci sono addirittura aziende che selezionano il personale in base all'oroscopo: è un danno grave per i lavoratori e un'offesa alla ragione e al buon senso.

Margherita Hack, Vi racconto l'astronomia.
Editori Laterza

lunedì 15 marzo 2010

Melanoma - sperimentazione vaccino

http://canali.kataweb.it/salute/2010/03/15/un-cocktail-per-prevenire-il-
melanoma-parte-la-sperimentazione-made-in-italy/

Redditi dei parlamentari

http://www.repubblica.it/politica/2010/03/15/news/redditi_parlamentari-2667170/

Zeugma

Lo Zeugma.

Significa "aggiogamento" perché "aggioga" ad un unico verbo due costrutti, uno solo dei quali è pertinente. Un esempio dantesco: il conte Ugolino, accingendosi a raccontare la sua atroce storia, dice:
Parlare e lacrimar vedrai insieme.

Senza lo zeugma avrebbe detto, con innegabile crollo della tensione lirica:

Mi vedrai lacrimare e mi sentirai parlare.

mercoledì 3 marzo 2010

Il nonno Beppe...




Il nonno Beppe...

... Non mi ricordo di averlo mai visto con un libro, non ne aveva.
Ma ascoltava la radio mentre lavorava.
E faceva i crittogrammi nella settimana enigmistica, tanti.
Non riusciro' mai a fare i calcoli in fretta come lui.
Uno degli ultimi giorni mi ha chiesto cos'era Internet........

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Posted By Marco to ECO... LOGICO at 3/03/2010 05:56:00 AM


martedì 2 marzo 2010

Passeggiare in un mondo che ha smesso di camminare


Pietro Citati in Repubblica del 13 Gennaio 2010. Bellissimo...
"Nella mia vita, ho passeggiato moltissimo, specialmente a Roma. Per almeno quarant'anni, ogni giorno alle 14 uscivo di casa. Abitavo (e abito) in una piccola strada, ignota persino ai tassinari, nella casa di fronte a quella dove abitarono per molto tempo Giulietta Masina e Federico Fellini.
Attraversavo viale Liegi, raggiungevo piazza Verdi, dove ogni giorno contemplavo con orrore ed entusiasmo il palazzo della Zecca, e poi via Paisiello. A questo punto, si apriva davanti a me Villa Borghese, che continuo ad amare con una specie di ebbra passione.
Ammiravo piazza di Siena che per me è uno dei grandi luoghi simbolici della terra - luogo di bambini, innamorati, lettori, cavalli, mendicanti. A volte attraversavo in tutti i sensi e in tutte le direzioni Villa Borghese - raggiungendo il laghetto o il piccolo cinema dove un tempo portavo mio figlio ogni domenica a vedere con lui i cartoni animati. A volte, proseguivo fino al Pincio, e mi inoltravo - contemplando molte tra le meraviglie di Roma - fino a piazza Navona. Non era lontano. Col mio passo da vecchio piemontese ci mettevo non più di quarantacinque minuti. Poi tornavo a casa. La passeggiata pomeridiano aveva, per me un'importanza capitale. Mi riposava, mi irrobustiva, mi dava calma e quiete. Soprattutto cancellava tutti i pensieri della mattina: la mia mente diventava vuota: si compiaceva di essere vuota; e cominciavano a nascere altri pensieri, che lentamente si formavano, costruivano un'architettura, nella quale sarei vissuto il pomeriggio e la sera. La giornata diventava nuova, la mente agile, e il sonno si preparava e si annunciava da lontano. Non ero solo. Incontravo moltissimi bambini, che giocavano al pallone o alle biglie o andavano in bicicletta.
Insieme a loro, c'erano i nonni, una stirpe a cui allora non appartenevo, ma che mi ha sempre affascinato, Con una vecchissima nonna conversavo sempre mentre i suoi nipoti giocavano allo skateboard. Qualcuno leggeva un libro su una panchina: qualcuno dormiva o dormicchiava; qualche diciottenne faceva la corte a una ragazza. Per tutti, non solo per me, quello era il culmine della giornata: un punto, un fondamento, sui quali reggeva il mondo.
Ora, tutto è cambiato. Quasi nessuno passeggia più. Villa Borghese è vuota. Non ci sono più né bambini né nonni né lettori. In parte, la ragione è nota a tutti. Col così detto "tempo pieno" - istituzione che esecro, sebbene ne comprenda la necessità - a quell'ora i bambini sono prigionieri a scuola. Stanno lì, mangiano, studiano, chiacchierano, rispondono ai maestri e ai professori, ma hanno perduto per sempre l'aria, il verde, il sole, le vibrazioni di Villa Borghese. Credo che sia una perdita immensa. Credo che l'umanità si divida tra coloro che posseggono ancora le loro Ville Borghese e coloro che ne hanno smarrito non solo il ricordo ma anche l'esperienza: tra coloro che passeggiano e coloro che non passeggiano più.
Qualcosa mi sfugge. E i nonni, i pensionati, gli sfaccendati dove sono andati a finire? Potrebbero benissimo passeggiare tra lecci e magnolie, e invece stanno chiusi da qualche parte. Cosa fanno? Dubito che leggano. Non fanno niente. Vivono prigionieri dei loro tristi pensieri, o delle mura e dei mobili delle loro case. Vorrei che si ricordassero o (se non hanno ricordi) imparassero. Niente è più bello che passeggiare contemplando gli alberi o guardando lievemente, senza preoccupazioni, dentro se stessi."

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Posted By Marco to ECO... LOGICO at 2/21/2010 01:24:00 AM