Ieri i lettori dell’edizione torinese de La Stampa hanno trovato una
pagina di pubblicità firmata da due bambine, Sara e Irene, ritratte a
carboncino. Erano lì per raccontare una storia di buona sanità. Quella
di Stefania, la loro madre, colta da arresto cardiaco nella sala
d’attesa del pronto soccorso delle Molinette e sottratta a morte certa
dall’intervento immediato del personale di turno e da un’operazione
d’urgenza, condotta dall’équipe di Cardiochirurgia «contro ogni logica e
con una tenacia fuori dal comune». Il testo rivela la presenza di un
adulto dietro le bambine. E la scelta della comunicazione pubblicitaria?
Che per leggere una buona notizia bisogna pagarla. Sui media soltanto
il male ha diritto a continue citazioni gratuite.
Però è intorno a un altro sentimento che vorrei concentrare la vostra
attenzione. La gratitudine. L’adulto senza nome che parla attraverso le
bambine (immagino sia il padre) ha speso tempo e denaro per
ringraziare. Una sorta di ex voto postmoderno. Una candela di carta che
brucia i cinismi, gli imbarazzi, le autodifese, riportando in auge una
pulsione dimenticata. Rendere grazie. Invece di dare tutto per scontato,
o per dovuto. «Ringrazia, Massimo» è una voce che mi insegue
dall’infanzia, la voce di mia madre. Troppe poche volte le ho prestato
ascolto. Ringraziare sempre, chiunque e comunque è impresa da
illuminati. Eppure anche noi che ci illuminiamo di rado, e solo a
intermittenza, potremmo riscoprire che esprimere gratitudine almeno
verso chi ci fa del bene non è solo un sintomo di educazione, ma un
balsamo esistenziale, forse addirittura un moltiplicatore di fortuna.
Massimo Gramellini, La Stampa 4.12.2014
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