domenica 31 dicembre 2017

GARGIOLAI (o Gargiolari)

ANTICHI MESTIERI

Gargiolai  (o  Gargiolari)  

        Garžulær, (sing. e pl. inv. -itz. gargiolai o gargiolari; urbano šgažulær-). Pure i gargiolari operavano in gruppetti di poche unità e si distinguevano dai canapini per le diverse funzioni che questi avevano, nei diversi trattamenti della canapa e nel contesto del loro lavoro. Il nome gargiolaio viene, appunto, da gargiolo; ottenuto dalla cernita della canapa più fine. Loro compito era quello di trattare, pettinare il gargiolo per poi essere filato e tessuto. Da questa lavorazione si ottenevano tre scelte:  a) – ramndî, sing. ramndæl (intr.). Era la parte del tiglio che ricopriva il fusto della pianta. Dopo la starpunæ (itz. starponata, a Pieve di Cento detta  tâj [taglio]) in tre pezzi, poi pettinata ne uscivano i ramndî che erano la parte più fine della concia, i quali, filati, davano il filo. A volte si faceva una lavorazione ancora più fine e si otteneva al muræl (intr.: itz. darebbe morale o morello ma nell’ambiente, in questa accezione, rimarrebbero termini senza senso in quanto apparterrebbero ad altri contesti). Con il muræl  si otteneva il filo più sottile di tutti gli altri, ottenuti con le scelte successive. Con la tela da questo ottenuta si facevano le doti da sposa per le ragazze della famiglia, ma non sempre; si usava parimenti anche tela fatta con filo di ramdæl senza la distinzione fra bdæl e muræl. Con questi due tipi di tela si facevano anche biancheria intima, asciugamani, lenzuola e quant’altro si potesse ottenere di fino; b) – manæle (pl. manæl, itz. mannella): era la seconda scelta (parte migliore dello scarto del gargiolo non usato per i ramndî), la cui filatura e tessitura dava la  tàile ed manæle (tela di manella), con la quale si poteva fare praticamente di tutto ma era particolarmente usata per fare pantaloni, detti ed rigadéñ (itz. di rigatino); verosimilmente perché questi, qualche volta fino alla seconda guerra mondiale, venivano tinti in toto o con righe colorate in blu o marrone. Questo fatto, molto probabilmente, è un’eredità fin dal primo ’600, quando da quelle parti e non solo, si portavano le brache a righe; la maschera del Narciso da Mal Albergo ne è buon testimone. I calzoni dei vecchi, a volte, erano tinti in tinta unica, molto tempo prima dell’avvento dei  jeans americani; c) – tûz, sing. tôz, (intr.: itz. darebbe tozzi; essendo parola monosemica non ha senso in altri contesti), terza scelta, la più rozza: era il primo scarto ottenuto dalla lavorazione che, filato, dava la tàile ed tôz (lett. tela di tozzo), la quale serviva per fare sacchi, teloni da carro e altro, nonché lenzuola per i ragazzi, per i bambini (chi scrive compreso). Quando le lenzuola erano nuove e i ragazzi la mattina si alzavano dal letto, potevano avere la pelle rossa e non immune da qualche piccolo graffio.
        A proprosito di gargiolari e canapini è quanto meno opportuno chiarire il significato dei due termini che (capita spesso) vengono fraintesi e confusi l’uno con altro; nel contempo serve come esempio di lettura per un qualsiavoglia elemento delle culture materiali. Questa distinzione si concretizza nel contesto dell’oggetto di cui si parla. Poiché in quel mondo non esiste nulla in sé, e tutto quanto lo compone (attrezzi, azioni, psicologie, comportamenti, superstizioni e quant’altro) trova la propria ragione di essere in un contesto, appunto, si approfitta per dire:  a) – i  gargiolari (detti anche cuñzéñ [itz. concini, conciatori?]) conciavano il gargiolo secondo la tecnica necessaria per predisporlo ad ulteriori lavorazioni per uso domestico; quindi, il fine di questa attività rientrava nel contesto dell’economia domestica; b) – i canapini lavoravano la canapa secondo una tecnica richiesta per l’ammasso; quindi, il fine di questo lavoro era il mercato. Cosa che, verosimilmente, è stata da sempre. Questo chiarimento per dire che, purtroppo, a volte può capitare, che senza inquadrare l’argomento nel contesto che gli è proprio, possa comparire altra cosa che potrebbe essere definita o indefinita; in quest’ultimo caso potrebbe anche essere qualsiasi cosa. Questo stesso discorso vale pure per i  contadini, comunemente intesi.

MASSARENTI GIUSEPPE


MASSARENTI Giuseppe

(Molinella (Bologna) 8.4.1867 – Molinella (Bologna) 31.3.1950)

Nato nel 1867 a Molinella da Petronio e Celeste Andrini. Terzogenito di tre fratelli e una sorella, proviene da una famiglia borghese che ha nel nonno, anch’esso Giuseppe, un rinomato gargiolaio (1) e negoziante di prodotti in canapa. Impegnato in una importante attività commerciale è anche il padre, che è un fervente mazziniano, come di idee risorgimentali è anche la madre. 
Rimasto orfano all’età di quattro anni, viene adottato dallo zio paterno Vincenzo che, artigiano pilarino e poi oste, lo avvia agli studi. Si diploma quindi in ragioneria e nel 1893 si laurea in farmacologia presso l’Università di Bologna. 
Nella metà degli anni '80 inizia il suo impegno verso il mondo contadino animato da idee radicali e subisce anche le prime denunce e condanne. Passato al socialismo-rivoluzionario, nel 1890 partecipa al v Congresso del Psrr e nel 1892 è a Genova al congresso di fondazione del Psi, in rappresentanza della Lega democratica di Molinella. Capo ed esponente emblematico per decenni delle lotte contadine di Molinella, nel corso dello stesso anno fonda una Lega di resistenza, nel 1895 viene eletto nel consiglio comunale, e l’anno dopo dà vita ad una cooperativa di consumo. Le vaste lotte bracciantili e la conseguente repressione del 1898 lo vedono più volte denunciato ed arrestato. Con l’elezione di una giunta socialista nel 1900, giunge a compimento quella che è forse la sua maggiore idea-forza ideologica, imperniata sul triangolo organizzazione sindacale-cooperazione-comune. La ripresa delle lotte agrarie di inizio secolo ed una nuova condanna in contumacia a 14 mesi nel 1901, lo costringono l’anno dopo a riparare in Svizzera per sfuggire ad un mandato di cattura. A Lugano, dove si stabilisce, fa il portabagagli ed il farmacista. Condonatagli la pena, nel dicembre del 1905 ritorna definitivamente a Molinella, che lo elegge sindaco nel novembre successivo. Nel 1908 viene eletto anche nel consiglio provinciale, nel quale rimane poi sino al 1913 quando viene candidato alla Camera ma riesce sconfitto a Budrio durante una tornata elettorale suppletiva. Dopo le vaste lotte bracciantili del 1914, che portano a furiosi scontri fra scioperanti e crumiri, con diversi morti e più di duecento arrestati, e che provocano anche lo scioglimento dell’amministrazione comunale, deve riparare a San Marino. Sottoposto ad una feroce campagna di stampa accusatoria (fra cui i due noti pamphlet “massarentofobi” del 1914 e 1916 di Mario Missiroli), risponde dall’esilio con lettere ed articoli sull’Avanti!, sul Giornale del mattino, sulla Squilla e con il saggio La Repubblica degli accattoni. Chiusisi alfine i procedimenti penali, dai quali riesce assolto, nel 1919 può rientrare a Molinella, che l’anno seguente lo rielegge nel consiglio comunale e quindi nuovamente sindaco. La “Molinella rossa”, serrata nel suo isolamento comunalistico, non può tuttavia reggere l’urto dell’assalto squadristico. Nel 1921, sfuggito ad un attentato fascista, si trasferisce a Roma dove poi rimane fino al 1926. Passato nel frattempo nelle fila del Psu (ottobre 1922), dopo le leggi eccezionali viene assegnato al confino per cinque anni, che sconta a Lampedusa, Ustica, Ponza e ad Agropoli. Liberato nel novembre del 1931 ma impossibilitato a ritornare a Molinella, per l’interdizione posta nei suoi confronti da parte dei fascisti, vive per alcuni anni in profonda miseria (per un anno dorme anche sotto i portici del Vaticano), fino a che nel 1937 viene richiuso dalla polizia in un manicomio a Roma. Qui rimane per altri sette anni sino al dicembre del 1944, quando, sei mesi dopo la liberazione della capitale, è alfine liberato. L’adesione al Psli, dopo la scissione di Palazzo Barberini (gennaio 1947), gli compromette una sua candidatura unitaria al Senato da parte dei partiti di “sinistra” durante le elezioni politiche dell’aprile 1948; candidato solamente come indipendente socialista nel collegio di Portomaggiore-Molinella, non riesce eletto. Ritornato a Molinella nello stesso aprile 1948, vi muore due anni dopo. Ai funerali dell’“apostolo della cooperazione” presenzia e rende omaggio anche il presidente della repubblica, Luigi Einaudi.



(1)
Gargiolai  (o  Gargiolari)  

        Garžulær, (sing. e pl. inv. -itz. gargiolai o gargiolari; urbano šgažulær-). Pure i gargiolari ope-ravano in gruppetti di poche unità e si distinguevano dai canapini per le diverse funzioni che questi avevano, nei diversi trattamenti della canapa e nel contesto del loro lavoro. Il nome gargiolaio viene, appunto, da gargiolo; ottenuto dalla cernita della canapa più fine. Loro compito era quello di trattare, pettinare il gargiolo per poi essere filato e tessuto. Da questa lavorazione si ottenevano tre scelte:  a) – ramndî, sing. ramndæl (intr.). Era la parte del tiglio che ricopriva il fusto della pianta. Dopo la starpunæ (itz. starponata, a Pieve di Cento detta  tâj [taglio]) in tre pezzi, poi pettinata ne uscivano i ramndî che erano la parte più fine della concia, i quali, filati, davano il filo. A volte si faceva una lavorazione ancora più fine e si otteneva al muræl (intr.: itz. darebbe morale o morello ma nell’ambiente, in questa accezione, rimarrebbero termini senza senso in quanto apparterrebbero ad altri contesti). Con il muræl  si otteneva il filo più sottile di tutti gli altri, ottenuti con le scelte successive. Con la tela da questo ottenuta si facevano le doti da sposa per le ragazze della famiglia, ma non sempre; si usava parimenti anche tela fatta con filo di ramdæl senza la distinzione fra bdæl e muræl. Con questi due tipi di tela si facevano anche biancheria intima, asciugamani, lenzuola e quant’altro si potesse ottenere di fino; b) – manæle (pl. manæl, itz. mannella): era la seconda scelta (parte migliore dello scarto del gargiolo non usato per i ramndî), la cui filatura e tessitura dava la  tàile ed manæle (tela di manella), con la quale si poteva fare praticamente di tutto ma era particolarmente usata per fare pantaloni, detti ed rigadéñ (itz. di rigatino); verosimilmente perché questi, qualche volta fino alla seconda guerra mondiale, venivano tinti in toto o con righe colorate in blu o marrone. Questo fatto, molto probabilmente, è un’eredità fin dal primo ’600, quando da quelle parti e non solo, si portavano le brache a righe; la maschera del Narciso da Mal Albergo ne è buon testimone. I calzoni dei vecchi, a volte, erano tinti in tinta unica, molto tempo prima dell’avvento dei  jeans americani; c) – tûz, sing. tôz, (intr.: itz. darebbe tozzi; essendo parola monosemica non ha senso in altri contesti), terza scelta, la più rozza: era il primo scarto ottenuto dalla lavorazione che, filato, dava la tàile ed tôz (lett. tela di tozzo), la quale serviva per fare sacchi, teloni da carro e altro, nonché lenzuola per i ragazzi, per i bambini (chi scrive compreso). Quando le lenzuola erano nuove e i ragazzi la mattina si alzavano dal letto, potevano avere la pelle rossa e non immune da qualche piccolo graffio.
        A proprosito di gargiolari e canapini è quanto meno opportuno chiarire il significato dei due termini che (capita spesso) vengono fraintesi e confusi l’uno con altro; nel contempo serve come esempio di lettura per un qualsiavoglia elemento delle culture materiali. Questa distinzione si con-cretizza nel contesto dell’oggetto di cui si parla. Poiché in quel mondo non esiste nulla in sé, e tutto quanto lo compone (attrezzi, azioni, psicologie, comportamenti, superstizioni e quant’altro) trova la propria ragione di essere in un contesto, appunto, si approfitta per dire:  a) – i  gargiolari (detti anche cuññ [itz. concini, conciatori?]) conciavano il gargiolo secondo la tecnica necessaria per predisporlo ad ulteriori lavorazioni per uso domestico; quindi, il fine di questa attività rientrava nel contesto dell’economia domestica; b) – i canapini lavoravano la canapa secondo una tecnica richie-sta per l’ammasso; quindi, il fine di questo lavoro era il mercato. Cosa che, verosimilmente, è stata da sempre. Questo chiarimento per dire che, purtroppo, a volte può capitare, che senza inquadrare l’argomento nel contesto che gli è proprio, possa comparire altra cosa che potrebbe essere definita o indefinita; in quest’ultimo caso potrebbe anche essere qualsiasi cosa. Questo stesso discorso vale pure per i  contadini, comunemente intesi.

AGRITURISMO TENUTA PRINCIPE

AGRITURISMO TENUTA PRINCIPE
di Daniela Trentini

Via Romagne, 23 - Marmorta di Molinella (Bo)










Risotto al radicchio














Giuseppe Massarenti


























martedì 19 dicembre 2017

AUGURI DI BUON NATALE E FELICE ANNO NUOVO

AUGURI - FESTIVITA' 2017 - 2018

A u g u r i

NonnoKucco augura a tutti i lettori di questo blog

BUON NATALE e FELICE ANNO NUOVO


Merry Christmas and Happy New Year

Wesołych Świąt i Szczęśliwego Nowego Roku 

En frehlicher Grischtdaag un en hallich Nei Yaahr

Joyeux Noël et bonne année

Prettige kerstdagen en een Gelukkig Nieuwjaar!
Zalig kerstfeest en Gelukkig Nieuwjaar



明けましておめでとうございます
旧年中大変お世話になりました
本年もよろしくお願いいたします

С Рождеством Христовым
С наступающим Новым Годом


¡Feliz Navidad y próspero año nuevo!  

Vesel božič in srečno novo leto


Nollaig Shona agus Athbhliain Shona 

З Різдвом і Новим Роком

Feliĉan Kristnaskon kaj Bonan Novjaron 

lunedì 11 dicembre 2017

SAN BARTOLOMEO IN BOSCO - SUOR LUIGINA SILVERA





Il 24 ottobre 1917, con la disfatta di Caporetto, gli Austriaci invasero buona parte del Veneto. Questa terra diventò perciò teatro di numerosi scontri che costrinsero la popolazione a lasciare le loro terre per riparare in luoghi più sicuri.
In un baleno più di cinquanta comunità, appartenenti all'istituto delle Sante Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa, vennero spazzate  dalla raffica nemica.
Le Suoeriore e le suore chiesero consiglio alla madre generale, allora suor Angela Ghezzi, la quale rispose: " Seguite i vostri poveri, i vostri bambini, i vostri malati".
Fu così che numerose suore si unirono alla folla di profughi per raggiungere la Toscana, l'Emilia-Romagna e tutta quella parte dell'Italia che meno risentiva degli eventi bellici.
Le stazioni delle città colpite dalla guerra vennero prese d'assalto. I treni non erano sufficienti per evacuare tanta popolazione, perciò si usarono anche i carri merci. Così si legge nella storia dell'Istituto scritta da suor Antonietta Prevedello (Vol. 3° pagina 312): " da Venezia a Ferrara quasi trena ore di treno. La tradotta aveva il compito di procedere il più lentamente possibile, di fermarsi ad ogni tratto, di sostare a lungo su binari morti. Nessuno può dire i disagi di quel viaggio; la tradotta barcollante pareva una nave abbandonata a sè: mancavano l'aria, il cibo, il soccorso"……
A Ferrara
Un gruppo di sfollati venne ospitato in Seminario e presso l'Istituto delle suore Orsoline. Poiché i posti non erano sufficienti per tutti, afferma Don Lorenzo Paparelli nel 1° libro delle sue memorie:
 " una piccola falange di suore fu caritatevolmente accolta dall'Arciprete di Gaibana nella propria canonica. Ma questa sistemazione precaria non poté durare a lungo.
Il Conte Gulinelli, che possedeva una villa disabitata a poca distanza dal paese, offrì ospitalità alle suore profughe che, grate a Dio per tanta generosità, soffrivano per lo smembramento delle loro comunità e anche per l'impossibilità di prodigarsi nelle opere di carità consuete. 
Nel 1917 reggeva la parrocchia di San Bartolomeo in Bosco, Don Gaetano Calura il quale viveva presso la famiglia dei suoi genitori e un fratello. Egli pensò di inviare una parte di quelle religiose nella canonica vuota. Così avvenne. Il 21 novembre 1917, la popolazione accorse favorevolmente le suore; si diede premura di offrire non solo generi alimentari, ma anche le suppellettili più urgenti e necessarie per alleviare il disagio e lo sconforto dell'esilio".
Dalle memorie orali di suor Luigina Silvera, che è vissuta nella comunità di San Bartolomeo in Bosco per quasi sessant'anni, si sa che la canonica rispecchiava le case più povere del paese, perciò mancava di luce, di riscaldamento, di soffitto; era abitata da numerosi e grossi topi…… Le suore non avevano nulla appena le vesti che indossavano.
Ma esse non si persero d'animo, iniziarono subito la loro attività apostolica: scuola materna per i bambini e scuola per il lavoro per le ragazze. Le prime giovani che frequentarono questa scuola furono: Linda Vaccari, Lucia Gottardi, Aniceta Minarello, Maria Cavicchi, ecc....... Vista tanta buona volontà da parte delle suore e del paese, si formò comitato, il cui animatore fu Don Gaetano Calura, per studiare la possibilità di rendere più sicura quest'opera iniziata per volontà di una misteriosa Provvidenza Divina che pensa i suoi figli anche nelle notti più oscure. Dopo qualche tempo la scuola materna si trasferì nella casa di proprietà del signor Tommaso Volta, situata all'angolo tra via Sgarbata e la via Masi. Solo nel 1925, superate non poche difficoltà, la scuola passò definitivamente nell'attuale abitazione dando così stabilità ad un'opera che continua ancora oggi, da oltre settant'anni, con la  stessa dedizione al servizio del paese per il bene del prossimo.
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 Testo e foto tratte da:


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Indicatore generale per l'Archidiocesi di Ferrara 1943:

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Cimitero di San Bartolomeo in Bosco:


SUOR LUIGINA MARIA SILVERA
20/9/1886
2/9/1978


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Ricordi di Nonno Kucco:

Un giorno la Superiora mi disse:
" Tu non sei grande, sei alto; Napoleone era grande, anche se basso di statura"