di Giovanni Sabato
La chiave per perdere peso non è il valore calorico dei cibi. Ma il
metabolismo degli zuccheri insieme all'andamento della glicemia. Ecco cosa
portare in tavola.
Colloquio con Cara Ebbeling.
Le calorie non esistono?
Sembra una provocazione ma è, invece, una questione
aperta sul tavolo dei maggiori specialisti di nutrizione. Perché, se da un lato
è ovvio che non si possono ingurgitare migliaia di calorie e sperare di perdere
peso, dall'altro gli esperti ormai sanno che esse non sono tutto nel
determinare quanto una dieta ci permetta di dimagrire. Il contenuto calorico è
un concetto fisico, che rende conto solo in modo grossolano di come il cibo
influenza il bilancio energetico dell'organismo. Altri aspetti contano
altrettanto, se non di più.
Primo fra tutti, la capacità del pasto di far crescere i livelli di glucosio
nel sangue. Una capacità espressa in due numeri: l'indice glicemico, che in
pratica indica la velocità con cui i carboidrati in un dato cibo sono
assorbiti, e il carico glicemico, che tiene conto anche della quantità
effettiva di carboidrati racchiusi in una dose ordinaria dell'alimento. Le
carote, ad esempio, hanno un alto indice glicemico perché i loro carboidrati
sono assorbiti in fretta; ma poiché ne contengono pochissimi, hanno un carico
glicemico basso.
Gli alimenti ricchi di carboidrati e con alto indice glicemico sono quelli a
cui prestare più attenzione, perché innalzano rapidamente i livelli di glucosio
portandoli a picchi che, se ripetuti pasto dopo pasto, scompaginano i nostri
meccanismi regolativi.
Allora, come costruire la nostra alimentazione per
perdere peso?
Lo abbiamo chiesto a Cara Ebbeling, endocrinologa della Harvard
Medical School di Boston, ospite a Roma della Fondazione Paolo Sorbini in
occasione del convegno 'Science in Nutrition 2010'.
Perché il carico glicemico è così importante?
"La tradizionale classificazione dei carboidrati, in zuccheri semplici e amidi
complessi, dal punto di vista nutrizionale è obsoleta. Ci sono amidi che
vengono assorbiti alla stessa velocità degli zuccheri. Molti effetti del cibo
sul metabolismo energetico non dipendono solo dalle calorie, ma anche dal picco
di zucchero nel sangue. Ad esempio, due gruppi di ratti hanno ricevuto diete
identiche per quantità di carboidrati, proteine e grassi, e quindi introito
energetico, e in dosi tali da mantenere uguale il peso medio. Il tipo di
carboidrati, e quindi il carico glicemico, era però diverso. Ebbene, quelli con
alto carico glicemico, pur a parità di peso corporeo, avevano una massa grassa
molto maggiore".
Questo cosa comporta?
"La nostra tesi è che un alto carico glicemico altera gli equilibri
fisiologici, indirizzando l'uso dei carburanti metabolici verso
l'immagazzinamento anziché il consumo, perché provoca un picco di ormoni come
l'insulina che favoriscono il deposito degli zuccheri, e frena quelli come il
glucagone che ne stimolano il consumo. Questo, oltre a favorire di per sé
l'ingrassamento, altera la regolazione della sazietà inducendo a mangiare di
più. Abbiamo visto che i bambini nelle ore successive a una colazione a basso
carico glicemico mangiavano meno. E negli adolescenti l'intervallo tra i pasti
era più lungo. Va detto però che la relazione fra carico glicemico e peso
corporeo non è così netta come le altre".
Come mai?
"Far seguire una dieta è più complicato che dare una pillola, e in genere si
imputano i risultati incoerenti al fatto che i pazienti non la rispettano bene.
Certo, però c'è anche la possibilità che la risposta differisca tra i vari
soggetti a seconda delle differenze fisiologiche. Perciò abbiamo condotto uno
studio per confrontare una dieta a basso carico glicemico con una povera di
grassi, con carico glicemico medio. Il protocollo era stringente: le istruzioni
erano standardizzate, tutto ciò che facevano gli operatori era documentato,
anche filmato, e tenevamo riunioni serrate per verificare che tutto procedesse
a dovere e sciogliere così i dubbi. Inoltre, abbiamo verificato come cambiavano
i risultati in base alla risposta insulinica dei soggetti, uno dei parametri
che media gli effetti del carico glicemico".
Con quale esito?
"Nell'insieme i due regimi hanno prodotto benefici simili sul peso e sul
grasso corporeo. Nei soli soggetti che dopo il pasto avevano una massiccia
secrezione di insulina, però, la dieta a basso carico glicemico era molto più
efficace. Sembra quindi che il carico glicemico conti soprattutto per chi ha
una risposta insulinica elevata"
In definitiva, qual è il messaggio su cosa fare e cosa no a tavola?
"Io invito a diffidare delle tante informazioni contraddittorie sul cibo
miracoloso o velenoso di turno, e attenersi alle regole generali per
un'alimentazione con un indice glicemico moderato. Gli scettici sostengono che
l'indice glicemico è troppo complicato da calcolare per essere pratico; ad
esempio varia a seconda della provenienza di un frutto, o cresce con la cottura
della pasta. Ma in realtà i concetti base sono semplici e si possono tradurre
in pochi messaggi chiari: mangiare frutta, verdura, legumi; ridurre gli snack
altamente raffinati o zuccherini, cui vanno preferiti cibi integrali e il meno
lavorati possibile; ed evitare le bibite dolci, una delle cose in assoluto più
importanti nei bambini. Poi, naturalmente, chi ha bisogno di una dieta
importante deve rivolgersi agli specialisti che ormai, almeno negli Usa, hanno
ben presente che le calorie sono importanti, ma altrettanto lo è la loro fonte.
Le ultime rilevazioni dei Centers for Disease Control dicono che negli Usa la
crescita di peso della popolazione si sta arrestando.
L'epidemia di obesità è alla fine?
"Non sono convinta che non sia un artefatto statistico, dovuto al modo in cui
si calcola l'indice di peso corporeo. Se davvero si fosse toccato un tetto,
potrebbe essere un segno che le campagne preventive cominciano a funzionare. Ma
anche così, resta fuori discussione che ci siano molti obesi che hanno bisogno
di qualche intervento, se non vogliamo pagare un pedaggio sempre più alto in
termini di salute pubblica".
È un problema che si autoalimenta: si ipotizza che madri obese tendano a
produrre figli propensi all'obesità.
"L'ipotesi è che l'obesità materna aumenti il trasferimento di nutrienti
attraverso la placenta, inducendo già nel feto quei cambiamenti del metabolismo
energetico, dell'appetito o di altri meccanismi fisiologici che favoriscono
l'aumento di peso. Se fosse confermata, sarebbe un fenomenale meccanismo di
trasmissione intergenerazionale in grado di sostenere e accelerare l'epidemia
di obesità anche in assenza degli altri fattori".
Quanto conta in questa epidemia quello che avete chiamato l''ambiente
tossico'?
"Molto. Contano la struttura e i ritmi delle città che favoriscono una vita
sedentaria, gli spostamenti in auto che scoraggiano la vita all'aperto. Come il
tempo passato alla tv, specie dai bambini che non si muovono e si ingozzano di
merendine e bibite, perché inondati da pubblicità di cibi e bevande fuorvianti
e potenzialmente dannose. E pesa l'abitudine ai pasti fuori casa, specie nei
fast food, o consumati in casa al volo, spesso meno sani di quelli preparati in
cucina e mangiati a tavola".
Lei ha studiato anche i conflitti d'interesse: cosa ha scoperto?
"Esaminando oltre un centinaio di studi su bibite analcoliche abbiamo
verificato che anche in campo nutrizionale vale quanto è già noto per i
farmaci. Le ricerche finanziate da società sul mercato alimentare avevano da
quattro a otto volte più probabilità di quelle non sponsorizzate di concludere
che il prodotto ha il beneficio auspicato, o che non ha gli effetti avversi
temuti. Gli studi possono essere progettati in modo tendenzioso, o
semplicemente i risultati sfavorevoli non sono pubblicati. Per avere
informazioni affidabili occorrono quindi più studi indipendenti".
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