Adamo Boari, fra classicità rinascimentale e inquietudini novecentesche
Negli anni della formazione di Adamo Boari, che lo porteranno dalla
natia Ferrara a laurearsi appena ventitreenne alla Facoltà di Ingegneria
dell'Università di Bologna, il dibattito sull'architettura prende una
strada affatto inedita nella storia europea, perché diventa prima di
tutto dibattito sull'ingegneria, e più precisamente sui rapporti di
questa con i valori dell'estetica e dell'arte. Si potrebbe anzi dire che
le straordinarie conquiste della tecnica delle costruzioni, rese
possibili dai nuovi impieghi della ghisa e dell'acciaio con le
incredibili realizzazioni delle Esposizioni Universali, da Paxton a
Eiffel, sposti l'attenzione del pubblico e di molti uomini di cultura
dai temi sempre più rarefatti e controversi dello stile a quelli ben più
concreti e apprezzabili della scienza applicata e delle conquiste da
questa consentite. Il problema tuttavia non è banale.
Nelle scuole di ingegneria mi si perdoneranno le inevitabili
semplificazioni cui una breve esplorazione come la presente obbliga- ci
si fa, in genere, paladini della più immobile tradizione accademica,
sostenendo il classicismo più vieto e conformista, dato l'interesse
scarso o nullo per la ricerca stilistico-formale, quando uno stile
"classico" universalmente (e
anche piuttosto acriticamente) accettato
finiva per essere "un problema di meno"; l'interesse della categoria si
riversava piuttosto sulla ricerca tecnologica e sulla sperimentazione
dei nuovi materiali che l'industria iniziava a mettere a disposizione
dei costruttori: la ghisa, l'acciaio, il calcestruzzo armato con barre
di ferro.
Al
contrario, all'interno delle Scuole di Belle Arti, il dibattito sullo
stile è più acceso che mai, ed è pressante l'esigenza di rottura dei
canoni classici, quale necessaria premessa all'invenzione di stili nuovi
o alla riscoperta revivalistica (ma non per questo meno rivoluzionaria)
di canoni da tempo desueti come il gotico, nell'esplicito intento di
rompere il conformismo dell'Accademia, che automaticamente nega, con il
suo porsi in termini definitivi e universali, qualsiasi possibile
rinnovamento del linguaggio architettonico, qualsiasi evoluzione verso
una poetica figurativa nuova.
E' interessante notare poi come entrambe le scuole di pensiero
finiscano per convergere verso un risultato del tutto simile, ossia
verso lo sbocco eclettico, pur con provenienze da direzioni opposte: gli
ingegneri per una sostanziale indifferenza verso i valori del
linguaggio architettonico, che porta all'automatica e rassicurante
adesione a tutto quanto tramandato e in qualche modo omologato dalla
storia; gli architetti, nell'ansia di innovazione e ricerca di qualcosa
di affatto nuovo (o rivoluzionario in quanto riecheggiante gli stilemi
di un medioevo vitale perché preaccademico) cui non corrisponde, però,
se non molto raramente, un'autentica forza di invenzione poetica e di
ricerca stilistica; non stupisce allora che sia ormai alle porte il
pasticcio che con garbato disincanto farà riflettere il musiliano Uomo
senza qualità sul fatto che, lungo le strade dei nuovi quartieri di
Vienna, si allineassero e facessero mostra di sé tutti gli stili
"dall'assiro al cubista" (e non era forse ingegnere anche lo stesso
Musil?).
Esattamente
negli anni in cui questo dibattito si accende fino a raggiungere, a
tratti, i toni della più aspra polemica, Adamo Boari termina gli studi
di ingegneria e inizia la sua fulminante carriera professionale che lo
porterà, nel volgere di pochi anni, dall'Italia al Brasile, agli Stati
Uniti e, infine, in Messico, dove realizzerà le sue opere più
importanti. Tornerà definitivamente in Italia nel 1916, in seguito alla
rivoluzione messicana, stabilendosi a Roma e con frequenti ritorni nella
sua Ferrara, dove farà realizzare dal fratello Sesto (ma con ogni
probabilità su suo proprio disegno) una palazzina in "stile
Rinascimento" nella strada che è l'icona della Ferrara estense: via dei
Piopponi, oggi Corso Ercole I d'Este.
Difficile oggi una valutazione critica reale e approfondita delle
opere maggiori e più importanti di Adamo Boari, se non visitandole
direttamente in Messico, impresa che non mi risulta a oggi intrapresa da
alcuno studioso ferrarese e neppure italiano. Una volta tornato in
Italia, infatti, l'opera di Adamo non va molto oltre una serie di
proposte e progetti che rimangono in massima parte sulla carta, mentre
sarà il fratello Sesto colui che realizzerà concretamente architetture
che però, per dimensioni e importanza, non possono essere paragonate con
quelle messicane del fratello maggiore, anche se rimangono per noi di
grande interesse perché è del tutto probabile che nelle opere di Sesto
non manchi la superiore forza ispiratrice di Adamo.
Per
certo, le immagini del Palacio de Correos di Città del Messico ci
suggeriscono la volontà lucida di un progettista di solida impostazione
ingegneristica, che impone all'intorno urbano una massa imponente, ma
non muscolosa, e che sa alleggerire con le merlettature al di sopra
della loggia all'ultimo piano (purtroppo gravemente danneggiata col
terremoto del 1985) un volume che appare comunque imponente e maestoso,
pur se carente nel trattamento tridimensionale delle facciate, che
rimangono, in definitiva, ancorate ai piani di riferimento cartesiani,
senza che la luce possa penetrarvi a conferire chiaroscurale profondità.
L'apparato ornamentale appare controllato (fatto non banale, date le
mode dell'epoca), pur con il ricorso a stilemi di chiara ispirazione
eclettica in cui riecheggiano -fra gli altri- timbri
moresco-orientaleggianti.
D'altro canto, ancora oggi, non è scontato per un europeo liberarsi
dalla fuorviante semplificazione che il Messico sia l'"Egitto
d'America".
Di certo il limite ingegneristico del Boari si rivela a
una riflessione sulla data di costruzione del Palacio de Correos, il
1907, quando si rifletta sul fatto che F. L. Wright avrebbe completato
solo due anni più tardi la Robie House su Oak Park, e che nel 1910 i
viennesi sarebbero stati sconvolti dal palazzo sulla Michaelerplatz di
un Adolf Loos quarantenne. Peraltro, sempre a Vienna, nel 1905 Otto
Wagner aveva completato il palazzo della Banca Postale con ben altri
esiti sul piano della capacità di inserimento nella scena urbana e del
controllo architettonico e dell'ornato, mentre a Glasgow Mackintosh già
aveva realizzato la sua Hill House e Bruxelles aveva conosciuto i nitidi
volumi marmorei di Hoffmann.
Più interessante per noi è forse l'analisi dell'altra gigantesca
costruzione messicana di Adamo Boari, realizzata in immediata prossimità
al Palacio de Correos, ossia il Gran Teatro Nacional, oggi Palacio de
Bellas Artes, a partire dal 1904. Poiché la costruzione venne terminata
solo nel 1934, Boari non la vide mai finita, anche se non mancano
testimonianze di un suo coinvolgimento continuato nel progetto ancora
dall'Italia, in costante contatto con l'architetto messicano Federico
Mariscal, incaricato di portare a termine la costruzione del teatro dopo
il ritorno in patria del nostro. Se i primi disegni del nuovo Teatro
Nacional risalgono al 1902, è del tutto probabile che Boari avesse ben
presente quanto realizzato a Parigi per l'Esposizione Universale del
1889, e nello specifico la Rotonda di Jean-Camille Formigé, sia per la
tecnologia di costruzione in acciaio rivestito in lastre marmoree, sia
per l'imponente consistenza dell'edificio sormontato da una cupola, (con
l'immancabile alata, che però guida la fantasia dell'osservatore più
che alla Samotracia alle vecchie macchine del caffè) in posizione
prospettica e centrale nel suo contesto monumentale.
La
realizzazione messicana appare però meglio imbastita e giocata con
maggiore sapienza spaziale per gli effetti tridimensionali del pronao
semicircolare d'andito e delle sovrapposte arcate che ne scavano la
facciata in profondità arricchendola di un effetto chiaroscurale che
manca nella costruzione parigina, e finisce per offrire un risultato
assai più convincente, pur nell'affinità dell'impostazione, evidente sul
piano della tecnologia di costruzione.
Significativa, pur nella
dimensione contenuta, è certamente la casa di abitazione di Adamo Boari a
Città del Messico, realizzata nel 1899 nella Calles de Monterrey y
Álvaro Obregón, che per i muri lisci e la quasi totale assenza di ornato
viene ancor oggi considerata il prototipo dell'architettura moderna in
Messico.
Qui, ancora, i nitidi piani che definiscono le facciate vengono
scavati in profondità dal portico di ingresso e dalla sovrapposta
loggia, ma la forma delle forature e degli incavi della facciata, pur
riecheggiando stilemi nouveau di chiara ascendenza europea, nulla hanno a
che fare con la "goticità" verticale di Horta; sono semmai superfici
nette che anticipano il pieno controllo volumetrico di un Van de Velde e
che, più di tutto, sembrano porre le basi della poetica delle ville
ferraresi di Sesto, e che sono così ferraresi perché, pur nella novità
del linguaggio e non esenti dagli inevitabili conformismi stilistici del
loro tempo, sono permeate di quella classicità rinascimentale che non a
caso si trova radicata così fonda nei due fratelli ferraresi.
Certamente l'opera di Adamo Boari andrebbe ancora studiata e
approfondita, soprattutto attraverso una diretta presa di contatto con
le maggiori opere messicane e con l'analisi degli ultimi grandiosi
progetti come quello per la Società delle Nazioni a Ginevra; impossibile
quindi per noi tirare somme in questa sede, se non con l'invito a
rileggere le belle monografie di Alessandra Farinelli Toselli, Lucio
Scardino, Angela Ammirati e Marica Peron. Quel che oggi possiamo dare
per definitivamente acquisita è la figura di un grande ingegnere
ferrarese, un accorto e sapiente costruttore, un uomo di cultura attento
ai valori della storia e della tradizione fino a farsi egli stesso
archeologo, un disegnatore di mano rapida dotata della geniale capacità
di sintesi che a tratti ricorda Edwin Lutyens, suo lontanissimo
contemporaneo. Più di tutto, un progettista che ha assorbito della città
natale l'atmosfera unica e irripetibile del suo Rinascimento, e ne ha
riportato lo spirito in paesi lontani, forse ultimo ambasciatore dei
Duchi d'Este.
Articolo di Andrea Veronese
pubblicato sul n. 27/Dicembre 2007
su
FERRARA - VOCI DI UNA CITTA'
edizione Fondazione Cassa di Rispermio di Ferrara.
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