Il termine “dialetto” rispecchiava il «linguaggio che adopera la
madre, il babbo e voi stessi quando parlate e quello che adopero io
stesso in questo momento nel farvi lezione».
Così scriveva il professor
Carlo Azzi, insegnante del ginnasio di Ferrara, autore di un manuale di
«esercizi preparatori alla lettura» per la scuola elementare stampato
a Ferrara nel 1860, poco tempo dopo l’unità nazionale, dalla Regia
Tipografia Bresciani.
Come in tutta la Penisola, in quegli anni a
Ferrara si parlava, anche a scuola, prevalentemente il dialetto, così
Azzi assecondò la necessità di uno strumento adatto a far apprendere
«una specie di dialetto comune che si chiama lingua nazionale», una
sorta di vocabolario “bilingue” con esercizi pratici da eseguire in
dialetto. Ma non tutti parlavano il “nostro” dialetto, avvertiva
l’insegnante: era sufficiente spostarsi poco lontano, per esempio «alla
fiera di un paese distante venti miglia», per ascoltare una parlata
diversa.
I dialetti del Ferrarese, appartenenti al gruppo gallo-italico e
classificati come “emiliano-orientali”, si suddividono infatti in
quattro varianti:
- il ferrarese di città e dell’area costeggiante
il Po di Volano comprendente Denore, Final di Rero, Migliarino,
Ostellato, Migliaro e, in parte, Codigoro;
- i dialetti rivieraschi orientali parlati a Ro, Guarda, Alberone, Cologna, Berra, Serravalle;
- i dialetti meridionali,
a sud di una immaginaria linea che unisce Bondeno, Mirabello, Masi
Torello, Voghenza, Gambulaga, Sandolo, Santa Maria Codifiume e, in
parte, Argenta;
- il dialetto comacchiese, parlato a Comacchio e da
Porto Garibaldi a Mesola.
Le prime due varietà citate hanno i caratteri
linguistici più originali relativamente alla semplicità vocalica, che
risente dell’influsso delle parlate polesane e transpadane.
Il ferrarese e l’italiano si alternavano nella pubblicistica
d’epoca, dove storielle, proverbi, barzellette, canzoni, satire sul
vivere quotidiano erano proposte in dialetto.
Ne sono esempi: Chichett da Frara
(1826-1849) del conte Francesco Aventi, “lunario” di “ciarle ferraresi”
con dialoghi e indovinelli, poi ripreso (1882-1907) appoggiando, con
scritti in dialetto, opinioni politiche progressiste; I ptagulò d’ Frara (1849-1854) di Ippolito Andreasi, di tendenza moderatamente repubblicana; Minghet (1851-1853) di Francesco Barbi Cinti; La rana (1865-1872) e Al ranocc’ (1868-1870) di Romualdo Ghirlanda; L’usél grifòn (1894), L’omnibus (1900-1901), Al campanòn dal Dòm, di stampo umoristico, e così via.
Nello stesso tempo fiorivano testi e vocabolari. Tra i primi sono da
ricordare traduzioni della parabola del figliol prodigo in ferrarese
(Francesco Aventi) e in comacchiese (anonima) comprese nel Saggio sui dialetti gallo-italici (Milano, 1853) di Bernardino Biondelli che per primo studiò questi linguaggi, come pure versioni di una novella del Decameron
di Boccaccio (giornata prima, novella IX) nelle parlate locali di
Cento, Codigoro, Ferrara e nel “dialetto plateale” di Comacchio inserite
ne I parlari italiani in Certaldo (Livorno, 1875) di Giovanni Papanti.
Tra i vocabolari, uno dei primi fu il Vocabolario portatile di
Francesco Nannini (Ferrara, 1805) rivolto «ad ogni classe di persone»
compresi i letterati, spesso in difficoltà nell’esprimere in un buon
italiano «certe voci e frasi del paese»; ancora Carlo Azzi con il Vocabolario domestico ferrarese-italiano (Ferrara, 1857); il Vocabolario ferrarese-italiano (Ferrara, 1889) di Luigi Ferri.
Da ricordare, infine, che accanto al dialetto (lingua parlata
quotidianamente da tutti) e al gergo (linguaggio in codice usato da
alcuni gruppi sociali per non essere compresi da altri) nelle strade del
ghetto la comunità ebraica utilizzava la parlata giudaico-ferrarese, con proprie specificità.
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